Se n’è andato anche Milan Kundera. L’insostenibile leggerezza dell’essere, il romanzo per cui è conosciuto in tutto il mondo, ha quasi 40 anni. Quel titolo enigmatico, che sembra aprirti la porta di una facile conoscenza e invece ti fa smarrire, tra i sentimenti e la ragione, tra l’irrepetibilità della vita e il nostro desiderio di fermarla negli istanti della felicità e della compiutezza. Quel titolo che è diventato un modo di dire, che è molto più conosciuto del libro. Così come, almeno in Italia, il suo autore è conosciuto quasi solo per quel romanzo. Ce ne sono diciotto, in realtà, tutti pubblicati da Adelphi. Ma nessuno ha avuto la forza e la fortuna di restarci impresso come L’insostenibile leggerezza dell’essere. Io l’ho letto quando è uscito, nel 1984. Ce lo passavamo tra gli amici, era una scoperta, aveva una freschezza e una leggerezza appunto, che ci aveva affascinato.
Erano gli anni dell’edonismo reaganiano: anni pacchiani, rumorosi, ineleganti, gli anni in cui la cultura, la conoscenza, il sapere cominciavano a essere considerati snob, elitari, qualcosa da irridere e svalutare.
E allora leggere di questo quartetto formato da Tomáš, Tereza, Sabina e Franz, dei loro desideri contraddittori e di come questi si combinano e convivono, del tradimento come unico modo per perseguire la leggerezza dell’esistenza; leggere la presenza dell’autore/narratore nelle pagine, presente come gli pare a lui, in libertà; leggere questo romanzo è stato bellissimo, rigenerante, tonificante.
Sì, ci hanno stregato i tradimenti “leggeri” (che quando comincia ogni tradimento dà un’inebriante sensazione di levità, salvo poi diventare insostenibile) compiuti in nome della libertà. Una libertà che per noi italiani, noi europei cresciuti in democrazie piene di difetti ma sostanzialmente garanti della suddetta, era così scontata che potevamo fargli anche le pulci. Mentre Kundera, venuto via dalla Cecoslovacchia sottomessa al regime sovietico, Kundera sapeva benissimo cosa voleva dire non averla, la libertà.
Ma a me è rimasto anche, ripensando ora a quella lettura di quasi quarant’anni fa, un grande senso di dolcezza: come una tenerezza verso i personaggi, e uno struggimento nell’uso delle parole. E quel dispiacere particolare di quando hai fatto una scoperta, e sai che non la potrai rifare.
Rispetto a tanti altri grandi autori suoi contemporanei, Kundera è stato fedele all’idea che uno scrittore debba parlare attraverso i suoi libri. Non è diventato un personaggio, non ha inflazionato i media con le sue esternazioni, non ha cercato di convincere nessuno, di nulla. Di lui restano i libri, da leggere e rileggere, da mettere in uno scaffale della libreria, dove non occuperanno tanto spazio. Ma potranno occupare tanto del nostro tempo, e del nostro pensiero. Se è vero che ogni vita passata sulla terra lascia qualcosa, quella di Kundera ha lasciato tantissimo. Spero che lo sapesse.