“Vivere come se il mondo non stesse cadendo a pezzi”, scrive Mikhail Shishkin in Punto di fuga, romanzo uscito nel 2010 ma insignito del Premio Strega Europeo 2022 per la sua enorme valenza simbolica, per la capacità di prefigurare il futuro che oggi stiamo subendo. Lo scrittore russo, esule in Svizzera per le sue frizioni con il regime, percepisce lo sgretolarsi del proprio mondo. Le basi della cultura russa, sulle quali ha poggiato la propria esistenza, gli sono state sottratte. Il caos è tornato a governare il mondo. Per questo il romanzo, pur nell’afflato corale, mette in scena due soli personaggi, due figure archetipiche come Adamo ed Eva, la cui eco risuona in un paesaggio stravolto dalla violenza. Come in Capelvenere, o ne La presa di Izmail, la molteplicità dei punti di vista riconduce a due uniche voci. La forma apparentemente passatista del romanzo epistolare viene scardinata, piegata ai propri scopi. La tematica sentimentale è in realtà presentimento della fine, perché “tutti i grandi libri e i grandi dipinti non riguardano affatto l’amore. Fanno solo finta di parlare d’amore, per catturare l’interesse. Ma in realtà parlano di morte”.
Le lettere che i due protagonisti si scambiano appaiono cronologicamente scompaginate, come se un capriccioso demiurgo si fosse divertito a mischiare le carte. A queste missive non c’è possibilità di risposta. Le anime, per quanti sforzi si facciano, restano sempre separate da un abisso invalicabile. I ricordi si intrecciano con le descrizioni della guerra dei Boxer, simbolo di tutte le guerre passate e future. Volodja è l’eterno soldato, l’uomo spinto ad imbracciare il fucile e ad assistere agli orrori più atroci. La guerra lo costringe a una tragica intimità con gli altri esseri umani, nella quale è impossibile godere della solitudine. Saša, come Penelope, attende il ritorno del suo uomo, e nel frattempo intesse un grande arazzo fatto di ricordi. Non riuscendo ad abituarsi a sé stessa, inventa un doppio, una figura per la quale tutto sia più facile.
La vita quotidiana, pur nelle sue difficoltà, si manifesta come struggente nostalgia, come temporalità estinta e irrecuperabile. In questo senso, Shishkin non crede alle speculazioni sull’eterno ritorno. Quello che conta è il momento presente, la realtà che continuamente ci sfugge. “Tutto è una volta sola e adesso”. I ricordi si attorcigliano attorno al pensiero della morte. Saša racconta la fine dei genitori, analizza la malattia, il progressivo estinguersi di un essere umano. Il romanzo è intriso di profondo pessimismo. “Incredibile credere che da qualche parte ci sia una guerra. E ci sia sempre stata. E ci sarà sempre”.
Partendo dall’idea che la vera letteratura debba essere perturbante, Shishkin impedisce al lettore di trovare requie. Sfuggire alla guerra è impossibile. Questa sarà sempre parte delle nostre vite. Sotto il suo influsso gli esseri umani mutano irrimediabilmente. “Impossibile non cambiare qui”, afferma Volodja. I volti cancellati dalla pioggia, i corpi madidi di sudore, gli spari nel buio, ogni cosa diviene inspiegabile, sconosciuta. Il compito inconcepibile di trascrivere le morti, comunicandole ai familiari, lo precipita in una matematica dell’atroce. “E se un giorno questi miei appunti fossero importanti per qualcuno?” si chiede Volodja. Purtroppo sappiamo che gli insegnamenti della storia sono presto obliati. L’immortalità promessa dalle parole vacilla. Dimostrare che si esiste al di là delle parole, questa è la sfida. Scrivere è un esorcismo, per quanto doloroso. Qualcuno deve registrare gli eventi, prima che tutto svanisca, qualcuno deve parlare del fango, dei morti, dei saccheggi, dei nervi che cedono, della distruzione insensata. Questo distingue la letteratura dal giornalismo, l’eterno dall’effimero. Il romanzo appare allora come un monito, necessario se pur vano, una prefigurazione dell’orrore che stiamo vivendo e al quale non possiamo sottrarci.