Al di qua dell’Atlantico c’è Roma, Roma che segue le regole del disfacimento, proprio e degli animalacci che vi abitano o la attraversano dai Fori al litorale un tempo soavemente imbevuto di vodka, succhi di frutta, semi-champagne, e temibili polverine tossiche, mentre nell’odierno tempo spuntano sgangherati cocktail simil-gin tonic. Lasciato il day after isterico della Silicon Valley (ma sembrano, oggi, tempi biblicamente frantumati) di Steve Jobs non abita più qui, Michele Masneri va a caccia di quei bipedi che ruotano intorno ai dissanguati eredi di Bruno Cortona del Sorpasso: li cattura seguendo Federico, trentenne giornalista milanese, inviato in tempo d’agosto nella capitale per intervistare una carogna di regista, fantasma più fantasma dei personaggi che millantano amicizie e liaison men che meno innocenti. È Barry Volpicelli in questo caso, la guida “conducente” il giovane inviato nelle macchinazioni di una frotta di spettri che vogliono assomigliare con scarsa nobiltà a citazioni felliniane mentre il “poco raccomandabile” si frammenta in cascami d’umori e amori.
Barry scorrazza lungo le strade romane con una vecchia Rolls gialla mezza arrugginita (targa californiana, gran tocco) ma facilmente eletta a protagonista in mezzo ai Fiorini, le Smart, i Suv metallizzati. Conduce l’imbelle suo ostaggio dove questi mai avrebbe immaginato: il Paradiso è una specie di borgo fatto di casette multicolori cotte dal sole davanti a una fetta di spiaggia che forse potrebbe salvare da un possibile inferno. La fauna pian piano emerge dalle mura fatiscenti, agitata in contorsioni e violenze espressive: una polifonia di caratteri dove Masneri può mostrare la propria avventurosa verve letteraria: alto artificio senza consolazione, per dirla alla Manganelli. Masneri presenta tutto quanto al lettore, non riflette ma lascia le futilità alle conversazioni udite in mezzo alla folla di vocianti oppressi, profittatori, viscerali, sputtanati, amici-nemici, parodie di maestri di pensiero (sic), e ultimi lacerti di “controversi” last minute del secolo scorso. La vita e la morte, infine, vengono coinvolte in questo “Paradiso” che non nasconde – almeno quanto Roma – la decadenza dei muri e degli interni. Come venisse presentata una griffe di gran lustro a cui nessuno osa togliere la polvere o, peggio, il fango.
Come nelle migliori novelle spaventevoli tocca al giovin giornalista svernare poi nell’eden murato di cui si tratta, vedendo svaporare uno dopo l’altro gli abitanti, dopo aver emesso parole senza peso e consumato del tutto il fresco e per certi versi incantato elemento marino davanti al compound sgarrupato. Il legame si concentra tutto con la tenutaria del luogo, Mavie, da sempre cuciniera e da sempre somma d’eleganza nello sfamare fino alla consunzione gli eterni ospiti, bravi a disfare la propria eternità d’inconsapevoli “presenze”. Alla fine l’elemento più immutabile sembra essere la vecchia Rolls, in attesa che la mano di Federico, nuovo possessore, giri la chiave e metta il cambio in drive. E Paradiso? Sembra «un villaggio inca pronto per essere inghiottito dalla vegetazione».