“Qui” è una parola che piace ai grandi (specie d’evidente rarità) spettatori del mondo, quelli che giungono ovunque e aprono gli occhi non soltanto sui panorami ma pure sulla biblioteca interna, mnemonica, che mai chiude i battenti. Il “qui” (e ora) eccellente, rilevantissimo e olografico, presentato con annotazioni tutt’altro che stringate. Gli attrezzati adepti arbasiniani (folta schiera negli scorsi decenni) sanno bene quanto gradevoli e stoici viaggi hanno alimentato visioni e scritture di colui che si pregiavano d’inseguire lungo le sue scorribande intra e extra-europee. Inseguimenti spesso forzatamente mentali, per ovvi motivi e conti bancari anoressici. Impossibile e impensabile imitare quell’amore per le arti, quel passeggiare nella bolla della mondanità e con quale eleganza vergare appunti sul demi-monde.
Michele Masneri è andato oltre la prossimità, non solo attraverso i viaggi, ma con duratura amicizia addentrandosi nell’enigma rappresentato da uno dei più grandi scrittori del Novecento. Un inseguimento affettivo nel corso degli anni, iniziato il giorno in cui il volume dell’Anonimo lombardo gli crollò sulla testa da un’alta libreria. Al ventenne Masneri, nella città capitolina lontano dalla “punitiva Lombardia” (metà anni Novanta), l’edizione Einaudi con de la Tour in copertina corrispose a una sorta di investitura/premio. Un Arbasino nello scaffale: vale a dire il riconoscere persone e famiglie non banali in dimore altrui, e ritrovarsi in possesso d’un mitico numero di telefono fisso – quello di casa Arbasino – il cui trillo conduceva dritti a un fax.
Stile Alberto racconta conquiste, incontri, passaggi quasi fantasmatici eppur reali, e cacce alle diverse edizioni di Fratelli d’Italia. Era l’epoca in cui il “venerato maestro” accresceva il suo romanzo princeps oltre le mille pagine dell’edizione Adelphi. Era l’epoca in cui i ragazzi avvicinavano il tutorial inserito in ogni pagina scritta da Arbasino, seguendo regole sartoriali e discorsi rivoluzionari sulla lingua italiana nei romanzi. Sensibilità vuole che Masneri ci rapisca dentro un’opera-mondo con impressioni sofisticate ma indubbiamente straricche di particolari e col beneplacito (“visto si stampi”) del tempo. La prima visita, oltre l’ascensore ligneo e l’ingresso dove campeggiano due A giganti, trasmette tutta l’emozione indotta dal luogo al giovane seguace sorpreso più dalle gardenie amorevolmente allevate che dalla Waste Land con dedica autografa di Eliot. E come non sorridere dell’Asti Cinzano nel secchiello del ghiaccio: una Roma nazionale nella Roma internazionale. Rivelazione è addentrarsi in Stile Alberto (molto diverso dai comuni memoir), ricco di fotografie bianco/nero e paragrafi sentimentali che nulla inventano e danno ampia voce a una generazione e alle generazioni limitrofe. Il libro comprende una bibliografia “confidenziale” attestante ritrovamenti fortunosi o tardivi su bancarelle ben più aristocratiche di librerie mutate in shopping mall.
Va da sé che ogni testimonianza scansiona il fondo dei decenni, le attitudini pioneristiche di molti e le vanterie memorabili di colui che inceneriva i rivali e il più delle volte trionfava in inarrivabili tenerezze o in opposti dell’invadenza. Eppure negli anni d’oro (e in quelli semplicemente placcati) abbiamo la grazia (non solo per i cruising in auto sportive) dell’amicizia vera con Pasolini a cui Arbasino guardava come mentore e rivale: Masneri considera con giusto feeling la loro lunga frequentazione. E qui pascolare nella mitologia aggiunge commozioni salate. Nessun figlio o “nipotino”, infine, e forse nessun padre. Si suggerisce come sia stato dispendioso – e lo crediamo veritiero – l’atto del seppellimento del gaddiano rapporto. Via dunque da smancerie, intimità e altri scambi forieri di reazioni allergiche.
Arbasino scompare definitivamente in un giorno di marzo 2020, perché andarsene era una sua “specialità”. E come non pensare che avrebbe voltato le spalle a quella bestiaccia infida, antipatica e letale del Covid? Ricordarsi, però: per la Vita di tutti i giorni, Matinée esiste sempre.