Michele Mari piace anche agli studenti

Michele Mari, Le maestose rovine di Sferopoli, Einaudi, pp. 172, euro 18,00 stampa, euro 9,99 epub

All’inizio della raccolta di saggi I demoni e la pasta sfoglia, monumentale silloge che l’autore periodicamente accresce e aggiorna e che è stata pubblicata presso vari editori in ben tre diverse versioni (2004, 2010 e, la più recente e corposa, 2017 per il Saggiatore), Mari fornisce nella sua implicita definizione del fatto letterario, la più esplicita dichiarazione di poetica: “[…] Molti dei nostri scrittori prediletti sono degli ossessi. Ossessione è da assedio, ma il suo nome scientifico, anancasma, è da destino, ananke. Scrittori al servizio della propria nevrosi, pronti ad assecondarla e a celebrarla: scrittori che hanno nell’ossessione non solo il tema principale (e insieme il metodo con cui anche la più semplice esperienza è assottigliata in pasta sfoglia verbale), ma l’ispirazione stessa, sì che nessuna interpretazione mi pare fuorviante come quella che ne riconduce l’opera a un intento salvifico, quasi la scrittura sia solo un surrogato della pratica psicoanalitica. Al contrario, è proprio scrivendo che essi finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano, finché, posseduti, essi diventano quegli stessi demoni”.

La pratica letteraria quindi è intesa come moderno esercizio di goetia, la magia evocatoria, e il testo modulato come un grimoire che, rinnovato Picatrix, Lemegeton, o Pseudomonarchia Daemonum, dissigilli le porte serrate che velano il manifestarsi concreto delle ombre che ci infestano. Il patto faustiano realizza sulla pagina la sintesi fra evocante ed evocato e l’esito dell’opera proietta infine il suo demone all’esterno verso il lettore, d’infestazione in infestazione (“Qui suis-je? […] qui je hante” scriveva André Breton in Nadja).

Per questo motivo, essendosi dedicato da sempre, applicando l’ars goetia senza compromessi, a coltivare le proprie ossessioni, Michele Mari è Michele Mari, un po’ come H.P. Lovecraft è H.P. Lovecraft. Che racconti della licantropia di Giacomo Leopardi, solo dalla poesia raffrenata, o dell’insania di Syd Barrett la cui presente assenza o assente presenza infesta in perpetuo i Pink Floyd, che infinga una sanguinosa infanzia o una leggenda privata, il suo magistero non consente mai al lettore altra possibilità che farsi parte dell’evocazione o sottrarsi spaurito. Così nella famosa avventura raccontata da Benvenuto Cellini (Vita scritta per lui medesimo, libro primo, capitolo LXIV) – la cui autobiografia Mari ha ben catalogato nei suoi saggi tra i furori misantropici – che in compagnia di un prete-negromante siciliano, un paio di altri accoliti e un garzoncello dodicenne come medium, tenterà, come Faust per amore, l’evocazione diabolica al Colosseo (luogo non scelto a caso: “Colis Eum?”, “Adori Lui?”). Circondati, al riparo del cerchio cerimoniale, da minacciosi demoni visibili solo al bambino terrorizzato, gli incauti riusciranno a infrangere l’assedio delle ombre maligne non grazie alle erbe aromatiche o agli scongiuri in ebraico, greco e latino del mago ma in virtù della viscerale reazione di uno dei compagni: “il ditto Angiolo, in quello che lui si volse muovere, fece una strombazzata di correggie con tanta abundanzia di merda, la qual potette molto più che la zaffetica. Il fanciullo, a quel gran puzzo e quel romore alzato un poco il viso, sentendomi ridere alquanto, assicurato un poco la paura, disse che se ne cominciavano a ‘ndare a gran furia”. La risata, il lazzo, la greve e concreta corporeità, sono il più efficace esorcismo: anche il negromante Mari e i suoi più ardimentosi lettori ben ne conoscono e praticano le virtù apotropaiche.

Un mito da sfatare è invece che Mari sia lettura ostica non tanto per le tematiche, quanto per la complessità della lingua e la ricercatezza dello stile: narratore nell’alveo aristocratico e impervio dei Landolfi o dei Gadda (splendida sua lezione su Gadda ebbi infatti il piacere di ascoltare un sabato mattina di qualche anno fa al Gabinetto Viesseux di Firenze). L’esperimento che compio da tempo nelle mie classi di scuola media però sembrerebbe provare altrimenti. Quando in terza arriviamo a Leopardi, non manco mai di accompagnare le lezioni con la lettura, come libro del mese per casa, di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti. Raro che, in larga maggioranza, quei giovanissimi studenti non restino affascinati e che denuncino difficoltà di comprensione o particolare fatica nel terminare il romanzo. Altro testo più volte sperimentato con successo come lettura in classe, è il racconto I palloni del signor Kurz, molto apprezzato specialmente dagli appassionati di calcio. Evidentemente la narrativa di Mari è più intrigante e meno ardua di quanto alcuni presumono. Sarà probabilmente perché Mari è un gotico e noi, i ragazzi e i loro docenti di lettere (almeno quelli come me, che antepongono il Fermo e Lucia a I promessi sposi), amiamo il gotico.

E proprio il fattore gotico emerge, forse ancor di più che nei romanzi, nella narrativa breve di Mari. Dopo Euridice aveva un cane (1993), Tu, sanguinosa infanzia (1997), Fantasmagonia (2012), l’appena uscito Le maestose rovine di Sferopoli conferma e consolida l’assunto. I racconti sono in parte inediti e in parte già apparsi su pubblicazioni minori, alcune delle quali abbastanza vecchie da essere contemporanee delle prime raccolte uscite che ho appena citato. Il fatto che non si notino differenze manifeste con i testi recenti dimostra come Mari sia promanato nell’empireo letterario quasi come un’ipostasi gnostica uguale a sé stessa, già compiuta ab origine e “sussistente in quanto è in sé e per sé, senza bisogno di altro”.

Dei 25 racconti molti spiccano tra i più incisivi e icastici, perfino “sperimentali”, della sua produzione: ad esempio Strada Provinciale 921, dove il linguaggio asettico di una ipotetica guida turistica, descrivendo luoghi e paesaggi immaginari incerti fra il banale e l’inquietante (“Potrete quindi fermarvi per la notte in una delle località della costa, rinomate per la cucina a base di molluschi e crostacei di dimensioni mostruose”), apre improvvisi e inaspettati scorci di desolazione esistenziale (“In albergo (consigliato lo Splendor di S. Cristina, 44 camere tutte con b. e aria cond., frigo bar, pay tv, posteggio, minigolf) vi stordirete di sonniferi per arginare la disperazione. Vicini rumorosi vi sveglieranno: sognerete colluttazioni. Angoscia”). Poi gli inusitati e spietati agoni fra rabbini animatori di golem di Argilla, o fra preti raccoglitori di funghi di Boletus edulis; le ghost-stories fuori da ogni canone come Il teschio del Capitano, Con gli occhi chiusi, Il buio, Bruttagosto e soprattutto la più toccante, Vecchi cinema, dove l’elenco dei cinema milanesi oggi scomparsi diventa elegiaca persistenza di una memoria che ci rende revenants di noi stessi. Apologhi e apoftegmi come Sull’atollo, con il classico soldato giapponese che rifiuta di arrendersi dopo la capitolazione del Sol Levante o Medio Evo, quasi hegeliano nell’esemplificazione della dialettica servo-padrone, o infine il paradosso voyeuristico di Panopticon. Lo pseudo-Boccaccio de Il falcone che rilegge Federigo degli Alberighi rendendo giustizia al povero uccello sacrificato, o la quasi operetta morale leopardiana Dialogo fra Leopold Mozart, Wolfgang Amadeus Mozart e un venditore di formaggi. Il trattatello in forma diaristica sui sogni Oniroschediasmi o gli esercizi oulipiani Le fonti del mondo (nel senso della canzone di Jimmy Fontana, hit degli anni ’60) e Variazioni Goldberg; infine feticismi oggettuali o verbali enunciati in Sghru, Scioncaccium, Scarpe fatidiche e addirittura nell’apparentemente innocua ricetta della coda alla vaccinara di In cauda.

Ci abbandoniamo come sempre volentieri ai demoni, soprattutto quelli evocati da Mari, confidando che, come fu nell’avventura magica di Benvenuto Cellini, la risata liberatoria scaturita dalla loro stessa essenza perturbante, riesca ancora una volta, quando ci abbiano svelato i loro segreti, a scacciarli, almeno per un po’.