L’ultimo romanzo di Michela Marzano ha un titolo piuttosto lungo, Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa e di primo acchito mi è parsa una scelta singolare, quasi come fosse carico di un’eccessiva enfasi che si riflette nell’incipit della storia, con un salto nella psiche della protagonista che è già impegnata in un tormentoso soliloquio: Anna si presenta attraverso i suoi pensieri, e paradossalmente ci specifica subito che il suo nome è senza “acca” all’inizio né alla fine, un nome tanto semplice da poter essere letto “in un senso come in un altro”. Nonostante la semplicità del nome, non sono semplici i suoi pensieri che si susseguono a singhiozzo, è difficile seguire il suo flusso di coscienza inframezzato da intercalari, brusche fermate e interruzioni a metà. Subito entriamo dentro la sua vita: la relazione sentimentale, le manie, le insicurezze, i ricordi e i traumi d’infanzia che non ammette nemmeno a sé stessa, e che sembra non riuscire a superare.
Leggere le prime trenta pagine di questo romanzo, per me, è stato faticoso. Non per la scrittura che è da subito risultata scorrevole, ma per il senso di antipatia nei confronti di Anna, che non si dipinge come eroina della sua storia, bensì tutt’altro. Dopo l’inizio burrascoso, il senso di fastidio si è attenuato, ma mi sono chiesta che cosa me la rendesse così antipatica: entrare nella sua mente mi ha dato l’idea di una persona egoriferita con una confusione e un’insicurezza tali che, in una donna, porterebbero senza troppi indugi alle definizioni di difficile, pesante, a tratti forse anche indigesta.
L’etichetta di donna difficile è molto inflazionata e direi che è Anna stessa ad affibbiarsela: ha superato i quarant’anni e vive a Parigi con il compagno, insegna giornalismo all’università e sulla carta potrebbe essere una donna realizzata; invece, non si sente affatto così e non è una di quelle che con l’età hanno acquisito distacco. Anna sbaglia, ha fatto molti errori e continua a farne, spesso si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, preda di una spasmodica ricerca di approvazione, degli apprezzamenti dello sguardo altrui di cui ha bisogno per sentirsi donna, talvolta anche solo per sentire di esistere. Le decisioni impulsive che ha preso in diversi momenti della vita la farebbero entrare a pieno titolo nel gruppo di “quelle che se la vanno a cercare”. Si giudica in maniera spietata, con un disprezzo misto a sconforto che risuona nella costante domanda: “ma come fanno, le altre, a farsi sempre rispettare?” Non vuole sentirsi una vittima: non sente di potersi definire una vittima – c’è sempre chi sta peggio – e perché nonostante tale condizione talvolta ci faccia sentire inattaccabili e sicuri, spesso per una donna non è così. Molte vittime sono finite nel banco degli imputati tanto quanto – se non più – dei propri carnefici.
La storia è narrata dal punto di vista della protagonista e ciò che rende la narrazione così interessante è l’elemento di attualità, come Anna si relaziona a donne come lei, con le loro esperienze che fanno parte di un vissuto condiviso e come queste la aiutino a decifrare il suo sentire e a comprendersi. Come giornalista e come docente, infatti, si imbatte e approfondisce le tematiche attorno al movimento #metoo (e alle versioni italiana #Quellavoltache e francese #Balancetonporc). Lo fa confrontandosi con le sue coetanee e con le studentesse e gli studenti, una generazione diversa con una grande rabbia e un forte senso di rivendicazione date dalla consapevolezza di cosa è venuto prima e di come si vuole cercare di cambiare, ma anche con l’ingenuità della loro età, che riescono a essere per lei una importante fonte di rinnovamento e di messa in discussione.
Anna è una donna che combatte strenuamente contro se stessa, combatte per migliorarsi, con anni di terapia alle spalle, mettendo in discussione i propri pensieri e i propri pregiudizi, ma è soprattutto impegnata in una guerra all’odio: l’odio che prova nei suoi confronti sin da ragazzina, che si rispecchia nel senso di impotenza appresa e nella continua dissonanza tra ciò che sente di dover e di voler fare e dove invece i suoi vecchi fantasmi la trascinano, tenendola legata con una forza che la sovrasta.
Procedendo con la lettura, l’iniziale senso di fastidio ha lasciato il posto a un’altra sensazione – la parola che mi viene in mente è disagio – che si traduce in quel senso di malessere che, come donna, ho provato tante volte riflettendomi davanti ad uno specchio, ma anche interrogandomi su sensazioni che non avrei voluto provare, e su cui invece ho capito di dovermi soffermare, dover rimanere a contatto con tutto e il contrario di tutto.
Il romanzo affronta tematiche di genere profondamente attuali e – in Italia come in altri paesi, fortemente controverse – senza rimanere “sulla soglia”, piuttosto mettendo le mani nel fango e mostrando al lettore un’esperienza che ne contiene una miriade di altre uguali e diverse in tantissimi modi: nella sua crudezza, non è il punto di vista di una vittima candida e pura, bensì imperfetta, come lo siamo tutte, che non sempre siamo riuscite a farci rispettare. Per molte donne credo che sarà facile immedesimarsi, ma forse difficile guardare dentro un dolore e una fatica che abbiamo sentito vicini, almeno una volta. Interessante sarà l’inevitabile sconcerto di chi, invece, per poter giustificare qualcuno ha bisogno che sia senza macchia e senza paura. Chissà se accetteranno la sfida di accogliere i personaggi di questo libro, che si muovono nelle nebbie di una zona grigia: con molte domande e pochissime risposte, profondamente consapevoli della propria umanità fatta di mancanze e paure in cui riescono a trovare il coraggio di essere pronti, prima o dopo, a fare un passo al di fuori di sé.