La cultura di sinistra francese ha gridato subito al sessuofobo, all’antifemminista, al mostro antigay che si è permesso di criticare i liberi costumi conquistati a fatica dai vecchi, ma pur sempre verdeggianti , libertini sessantottardi. Michel Houellebecq, nel suo romanzo di successo Le particelle elementari (Bompiani, 1999) ha criticato la cultura del desiderio, le “dèsir”, ma soprattutto ha avuto la sfacciataggine di riparlare di sofferenza, di vita interiore, ha messo in dubbio la felicità di vivere nell’eterno presente, di quello che viene sbandierato come il migliore degli universi possibili. Di qui all’accusa di razzismo sofisticato da fan di De Maistre il passo è breve. Ma chi è Houllebecq?
Intanto ha quarantadue anni ed è di formazione più scientifica che letteraria, senza per questo voler subito tradurre in termini letterari le sue conoscenze di biologia e di genetica, come avrebbe fatto da noi un epigono dì Italo Calvino. Non è per nulla interessato, insomma, a rivitalizzare il genere romanzesco con una robusta iniezione di termini biogenetici, nonostante il fatto che per capire il suo romanzo fino in fondo ci sarebbe bisogno di una cultura totale. Del resto non proviene nemmeno dalla cultura di destra, che se in Francia ha avuto una gloriosa tradizione, poi con Le Pen si è appannata del tutto. Lungi dal nostro autore il desiderio di rinverdire i rami del romanzo religioso o reazionario e nemmeno alla Céline, nonostante che l’assalto frontale alla società di oggi è simile per molti versi a quello dell’autore del Viaggio al termine della notte. Non troviamo in Particelle elementari, come negli altri libri di cui parlerò tra poco, l’argot céliniano e nemmeno il narcisismo che ne fece un personaggio da odiare, da amare.
Michel Houellebecq va al sodo con un linguaggio di origine saggistica, esemplificativo, essenziale. Date un’occhiata alla foto di Michel da bambino che c’è nel retro-copertina della traduzione italiana: sta guardando un libro di figure quando qualcuno lo distrae per fargli la foto ricordo. Michel alza il volto e sorride scoprendo i denti . È un ragazzino pieno di speranze. curioso del mondo rappresentato dalle figure di quel libro, amato dai suoi genitori. Raffrontate questa foto con l’altra che nella stessa edizione figura sempre nella copertina. Si vede lo scrittore com’è adesso, smunto, depresso, con uno sguardo tra l’infelice e lo sprezzante. Quel disprezzo riguarda proprio noi lettori, gli ipocriti lettori che leggiamo speranzosi di un eden che non c’è. Quello sguardo ci dice: per favore, smettetela, siate lucidi, cercate di sopravvivere, di restare vivi, non fate la morte del topo, sputate sul divertimento organizzato, obbligato, sulle feste a base di sesso che vi portano verso una rapida distruzione.
La novità delle particelle elementari tuttavia è di ordine letterario. Il romanzo in Francia, come del resto in Europa, si è rifugiato nell’esaltazione dei vari generi, da ultimo quello noir. Invece qui è il romanzo-romanzo che torna in auge e non, intendiamoci, nella forma post-moderna alla Michel Tournier. Non era facile riparlare di romanzo dopo che la “scuola dello sguardo” l’aveva affossato e gli anni Ottanta lo avevano rimesso in circolazione come “repechage”, come forma ironica di riscrittura. Non c’era bisogno soltanto di un io pimpante che sapesse raccontare le proprie storie, ma anche di un io sufficientemente incazzato da procurarsi una visione del mondo o almeno pronto a ricostruire l’universo delle idee dove si è sempre mosso e ha prosperato il grande romanzo europeo. Da noi intenzioni del genere verrebbero subito bollate dai critici ancora supini all’avanguardia come una forma di impegno che non deve più rinascere, anche se si tratta di un impegno tutto privato, nato da una voglia di reagire, di gridare al mondo la propria indisponibilità. E badate, non per salvarsi l’anima, ma proprio la pellaccia.
Il primo libro di Michel Houellebecq è un saggio dedicato a Lovecraft, ed è stato pubblicato nel 1991 dall’editore Le Rocher. Se pensiamo che gli scrittori della sua generazione sono tutti o quasi minimalisti e molto parigini al punto da essere difficilmente esportabili, quest’esordio fa la differenza. Anche in Italia un saggio su Lovecraft – magari di uno scrittore cannibale – sarebbe il venuto visto che è diventato autore di culto delle nuovissime generazioni. Già in quel saggio Houellebecq si mostra polemico con le invasioni americane in fatto di cultura. L’antiamericanismo del nostro autore ha una radice francese profonda. Da faro del mondo, almeno dal punto di vista culturale e fino a Marcel Proust e un po’ anche a Sartre, effetti frustranti difficilmente comprensibili da noi. In ciò riprende Baudelaire e tutti quegli autori francesi dell’Ottocento che guardavano con disprezzo alle novità culturali americane considerate selvagge. La Francia di oggi non si riconosce più e le reazioni degli intellettuali sono tra le più violente.
Tre anni dopo il saggio d’esordio, Houellebecq pubblica il suo primo romanzo, Estensioni del dominio della lotta, tradotto quest’anno da Bompiani. Il romanzo catturò l’attenzione della critica francese più avvertita non fosse altro per quel titolo così poco letterario, e iniziò l’attesa per un autore così singolare. Del 1996 sono le poesie de Le sens do combat, uscite da Flammarion. Anche nelle poesie come nel romanzo il tema è la solitudine dell’uomo e il tentativo di attrezzarsi per non fare la morte del topo. Il poeta è alla ricerca di una strategia. “Non c’è più granché al fondo dei nostri sorrisi. Noi siamo prigionieri della nostra trasparenza”. È d’obbligo “il ritorno nella casa del Padre”.
Insieme al suo saggio era apparso nel 1991 anche una serie di interventi, che poi nell’edizione del 1997 di Flammarion si sono accresciuti. Il libro s’intitola Rester vivant, ed è una vera sorpresa. Nel bel mezzo delle contorsioni teoriche attuali vuole suggerire un metodo di sopravvivenza. È formato di una prima parte che potrebbe essere intitolata “Consigli a un giovane poeta”. Inizia dichiarando che il mondo è una sofferenza atroce. “Il niente vibra di dolore”. Esemplifica storie allucinanti come quella del poeta ragazzino che vede suo padre intubato come un malato terminale, e tutto il suo dolore è racchiuso nel suo sguardo che lo porterà a pensare di essere colpevole di quella morte imminente. La musica condurrà il giovanissimo poeta nel territorio dell’amore dove però la ragazza desiderata ama un altro. “La sofferenza è la conseguenza necessaria del libero gioco delle parti del sistema. Il mondo soffre perché è libero”.
La critica alla libertà ha un sapore pasoliniano, che torna spesso in Houellebecq, sia esso saggista o romanziere o poeta. Tenendo conto delle caratteristiche del mondo moderno, l’amore non può manifestarsi, anche se l’ideale dell’amore non è diminuito. Nell’assenza non resta che coltivare l’odio dì voi stessi e ìl disprezzo verso gli altri. Il poeta sa che nel tumulto della vita si è sempre perdenti. Così non rimane che accumulare un numero infinito di frustrazioni, e che si sappia che per diventare poeti bisogna disapprendere a vivere. “Amate e odiate il vostro passato ma conservatelo. La vita è una serie di test di distruzione e dovete sentire il dolore attraverso tutti i vostri pori, senza disdegnare la timidezza perché è quella che vi darà modo di attingere alle vostre più nascoste risorse interiori”. La voce di Houellebecq si fa forte e chiara come quella di un rappresentante della new age che però volesse distruggerla. Immaginate un Coelho alla rovescia, pessimista, distruttivo. “Se susciterete negli altri pietà e disprezzo siete sulla buona strada, potrete cominciare a scrivere”. Il poeta non dovrà suicidarsi, deve invece pensare a una struttura, a una strategia per sopravvivere. “Ripescate la metrica antica”, suggerisce, “è uno strumento di liberazione della vita interiore”. Non sentitevi obbligati a inventare una forma nuova: “le forme nuove sono rarissime, una per secolo, e la poesia non è un lavoro sul linguaggio”.
Che cosa direbbe di frasi del genere la critica letteraria italiana? Correrebbe subito a classificare il nostro come uno scrittore dell’Ottocento o tenterebbe – come pure ha fatto – di mettere il cappello anche su questa nuova esperienza, magari parlando di neo-neo-neo avanguardia? “Scrivere non è lavorare” continua il nostro, “né dovete spaventarvi di avere dentro di voi contraddizioni che non vi fanno pensare subito a una personalità coerente”. Per restare vivi bisogna scrivere anche se la nostra esistenza è un tessuto di sofferenze, e soprattutto bisogna saper valutare il mistero, la nostra ignoranza, l’impossibilità di conoscere fino in fondo le ragioni della scrittura.
Bisognerà mettere in conto psichiatri e molto alcool, ma ricordate che il poeta è pur sempre sacro come uno scarabeo egizio e quindi niente problemi a sfruttare amici e ambiente sociale, anche se bisognerà pur sempre scrivere qualche raccolta di versi per guadagnarsi la riconoscenza postuma. II vero problema per un poeta è evitare quelle persone che lo potrebbero uccidere intellettualmente, e sono la maggioranza. Certo un periodo di barbonaggio occorrerà metterlo in conto, e evitare di pensare che una vita sessualmente armonica si addica al poeta così come un matrimonio felice e figliolanza. “Non abbiate paura della felicità, tanto non esiste” sottolinea Houellebecq, aggiungendo che non bisogna cercare la conoscenza per se stessa, tenendo presente che tutto quello che non scaturisce dall’emozione in poesia non conta.
In quanto poi al rapporto tra poeti e filosofi, perché non rispettarsi a vicenda, senza cercare di influenzarsi? La poesia eviti di essere filosofica, politica, scientifica ecc.: essa deve trasmettere la percezione dell’emozione. “Credete nell’identità tra il Vero, il Bello e il Bene”. Solo così riuscirete a evitare che la società dove viviamo riesca a distruggervi. Naturalmente l’autore di Restare vivi invita il poeta a non indugiare, a passare all’attacco, a mettere il dito nella piaga. a parlare della morte e dell’oblio, a non aderire a nulla. a tradire. La verità è sempre scandalosa. Alla fine di questo vademecum per il giovane poeta si possono leggere interventi violenti e velenosi contro l’organizzazione del divertimenti, il sesso in rete, i guru New Age che predicano il sesso facile e gradevole per tutti, í villaggi delle vacanze ecc.
Ce n’è uno contro Jacques Prèvert che vale la pena riassumere. Si intitola “Quel coglione di Prèvert” e attacca il prèvertismo degli anni Cinquanta quando si viveva per la libertà, per il proletariato, per un mondo che non era il proprio, quando gli intellettuali e gli artisti rincorrevano le cause perse, allontanandosi schizofrenicamente da loro stessi. Houellebecq ce l’ha con il realismo poetico. O è realismo crudo o non va bene: se la prende con l’ottimismo della generazione dei Sartre e dei Prèvert, dei Vian, dei Brassens, che hanno dato della Francia un’immagine da cartolina slavata e stupida. Non sopporta infine che le poesie di Prèvert siano finite nella Plèiade accanto a quelle di Baudelaire. I libertari sono degli imbecilli e non meritano nessuna riconoscenza postuma. Se sono d’accordo quando si ridicolizza certa atmosfera sdolcinata del secondo dopoguerra, dovuta forse anche al prèvertismo, non capisco come non si debbano amare molte delle poesie del poeta francese più conosciuto nel mondo.
C’è poi un intervento che riguarda Pìer Paolo Pasolini e il progetto del film su San Paolo, dove la missione di San Paolo doveva svolgersi nel mondo contemporaneo, anzi nel cuore di New York. Houellebecq ci spiega la motivazione segreta di Pasolini, quella che gli aveva fatto abbandonare l’idea di fare il film a Roma. New York, nonostante il suo dinamismo apparente, è una città decrepita, dove non si vorrebbe mai lasciare la stanza d’albergo. Torneremo su Pasolini, anche perché abbiamo avuto l’impressione leggendo i suoi romanzi che almeno gli Scritti corsari siano stati saccheggiati. Dunque, prima de Le particelle elementari il nostro aveva scritto Estensioni del dominio della lotta, dove il protagonista è un depresso cronico che mette in pratica tutti gli insegnamenti di Rester vívant. Intanto odia le emozioni, le maschere, le ipocrisie, odiando innanzitutto se stesso e il proprio lavoro di programmatore in una società informatica. L’attacco merita una citazione: “Venerdì sera sono andato a una festicciola in casa di un collega di lavoro. Eravamo una trentina e passa, tutti quadri di medio livello, trai venticinque e i quarant’anni. A un certo punto una scema ha cominciato a spogliarsi. Si è sfilata la maglietta, poi il reggiseno, poi la gonna – il tutto facendo delle smorfie incredibili (…) dopo il quarto bicchiere di vodka ho cominciato a sentirmi malissimo”.
Il nostro protagonista non sopporta che l’estensione del dominio sia giunto anche ai genitali, entrando nelle pieghe segrete della personalità umana, non digerisce che la solitudine sia diventata “crudelmente tangibile”. Il lavoro è assorbente e comunque un po’ di tempo libero resta sempre e non si sa come impiegarlo. Neanche dedicarlo al prossimo sembra interessante, anche perché il prossimo è per niente attraente. Così pure la musica, che da giovani occupava tanto tempo, invece con il passare degli anni soddisfa sempre meno. Nonostante che la direzione di tutti sia verso la morte, nessuno ha voglia di morire. Naturalmente il nostro trentenne è colto e sa che nella nostra società il sesso rappresenta un secondo sistema di differenziazione dei tutto indipendente dal denaro. “Il liberalismo sessuale produce fenomeni di depauperamento assoluto”.
Mano a mano che si procede nella lettura del romanzo ci accorgiamo che l’io del protagonista è diventato una specie di noi, e che questa è la novità maggiore del libro. É un continuo lagnarsi di questo e di quello, producendo effetti di vomito come accadeva ne La nausea di Sartre. Solo che nel romanzo sartriano l’io era ancora saldo e desideroso di conoscere mentre qui, ripeto, sembra un io sociologico. Come la gente riesce a vivere in un mondo in cui tutti dovrebbero essere infelici? Da un lato nel nostro mondo c’è un sistema maschile basato sulla dominazione e dall’altro uno femminile basato sulla seduzione. E non bisogna credere che ci sia altro.
Hai avuto una vita. Ci sono stati momenti in cui avevi una vita. Certo, non te ne ricordi più benissimo, ma ad attestarlo restano varie fotografie. Questo succedeva all’epoca della tua adolescenza, o poco più tardi. Quant’era grande, allora, la tua smania di vivere! L’esistenza ti sembrava ricca di potenzialità inedite. Ti vedevi potenziale cantante di musica leggera, ti vedevi in viaggio per il Venezuela… Le pagine che seguono costituiscono un romanzo; cioè chiarisco: una successione di aneddoti di cui io sono il protagonista. Questa scelta autobiografica non è effettivamente tale, e comunque non ho alternative. Se non scrivessi ciò che ho visto soffrirei ugualmente – e forse anche un po’ di più. Solo un po’, ripeto. La scrittura è tutt’altro che un sollievo. La scrittura rievoca, precisa. Introduce un sospetto di coerenza, l’idea di un realismo. Si sguazza sempre in una caligine sanguinolenta, ma un po’ si riesce a raccapezzarsi. Il caos è rinviato di qualche metro. Misero successo in verità.
Nauseato, estraniato da se stesso, il protagonista di Estensioni anticipa le pagine migliori de Le particelle, ne è un concentrato essenziale. Ciò che mi è capitato di osservare altrove è l’eccessiva progettualità sia del primo che del secondo romanzo. L’aria di romanzo a tesi, quel voler insistere a volte troppo su come ti istruisco il pupo. è una piccola pecca rispetto alle sensazioni di nausea violenta che produce la prosa di Houellebecq. Quando la generazione elettronica, ho detto, si mescola con il marasma dell’esistenza, finisce con somigliare a quella esistenzialista, senza la speranza, l’ottimismo che pure quella generazione infondevano.
Ne Le particelle elementari i protagonisti sono diventati due, anche se sono due fratelli e troppo dissimili tra loro per non risentire di un certo programma dell’autore fin dalle prime pagine del romanzo. Anche qui si tratta di aneddoti della vita dei due, inquadrati però in maniera molto limpida nell’epoca storica in cui si sono prodotti. Bruno e Michel sono figli di una seducente sessantottarda, libertina, aperta a qualsiasi esperienza sessuale. che li abbandona quasi subito nelle mani di una nonna tradizionale. Mentre lei veleggia nelle esperienze americane della liberazione, Bruno diventa un represso e un perverso mentre Michel un sessuofobo. Michel, che ha lo stesso nome dell’autore, è un freddo eiaculatore, stimato biologo, sempre in difficoltà con il mondo femminile e più in generale con il resto del mondo. Bruno invece si rivela un formidabile onanista, affogando tra gli scambisti del sesso, nel sessismo più feroce. Intorno a loro c’è tutta una umanità nauseabonda dove il sesso è un dio terribile e il corpo un feticcio. Michel finirà con progettare la donazione umana per eliminare il sesso e il dolore. L’Occidente si è distrutto da quando ha visto l’uomo come oggetto, nascondendo l’interiorità.
A chiusura del libro il lettore si chiede se la mutazione genetica è un bene o un male, se il mondo umano perduto è poi quello giusto, se ii romanzo appena letto non è da ascrivere al genere di romanzo di idee piuttosto che a quello a tesi. Se la vera e propria furia pedagogica di Houellebecq a volte toglie smalto ai protagonisti, la sensazione che si ha è quella di un romanzo epocale – che non è affatto poco, dati i prodotti stagionali che siamo costretti a leggere. Ho parlato fin dall’inizio di questo articolo di Pasolini e adesso è venuto il momento di chiarire. Come per Pasolini anche per Houellebecq è la novità americana che distrugge e omologa il costume europeo. Per entrambi sono gli Stati Uniti con la loro falsa liberazione sessuale all’origine del volto sfigurato dell’Italia e della Francia. Non c’è brano di Scritti corsari che lo scrittore francese non farebbe suo, ma ha in più la coscienza che quello che hanno perduto i francesi con l’omologazione è molto di più.
La Francia aveva un primato, quello culturale ed oggi è costretta a inseguire ogni stormir di foglia del mondo artistico di New York. Il filosofo di Houellebecq finisce con essere Comte, e certo Zola – anche se non esplicitamente citato – e più in generale il naturalismo sono i punti di riferimento maggiori, tenendo presente che anche Céline se voleva scandalizzare le avanguardie francesi della sua epoca doveva tornare sulla tomba dell’autore di Germinal. Gli scritti di Houellebecq alla fine nascono da una reazione fortissima di tipo prettamente francese, che in altri tempi avremmo potuto catalogare come sciovinista e che oggi se viene compresa in Europa è proprio per quel carattere di rivincita che la sottende. Se vogliamo finirla con il minimalismo, con gli scrittori di genere, con i bestseller – sembra dire l’autore di Rester vivant – allora dobbiamo rimettere piede nella casa del Padre, rientrare in quelle vecchie stanze, ora che il padre è stato fatto a pezzi, e provare a crescere. Un programmino ambizioso. non vi pare?
(Articolo in origine pubblicato su PULP Libri n. 25, maggio-giugno 2000, pp. 6-9)