Secondo il fondatore del cosmismo, Nikolaj Fëdorov (1829-1903), la “nostra terra, presa nel suo insieme, è piccola e insignificante, e dobbiamo ingegnarci a vivere su altri mondi”. La terra fa parte del cosmo ed è soltanto un elemento tra gli altri: noi stessi partecipiamo alla vita dell’intero cosmo, e tutto l’universo è fatto delle ceneri di nostri antenati. Perciò la scienza deve essere sviluppata al massimo della sua potenza, fino a permettere la resurrezione dei morti. Così, la prospettiva del cosmismo prevede “l’uso del metodo scientifico per ottenere un’estensione radicale della vita, l’immortalità fisica, la resurrezione dei morti e la colonizzazione dello spazio e degli oceani”. La sua origine risale alla fine dell’Ottocento, ma le sue alterne vicende arrivano fino al transumanesimo della Russia – e non solo – dei giorni nostri. Modifiche, integrazioni e sviluppi ne fanno, più che una corrente omogenea, una “nebulosa” dai contorni mobili e sfumati. In questo senso, il testo può essere interessante perché ci ragguaglia su un aspetto della vita culturale russa per lo più ignota ai non specialisti.
Comunque, anche a prescindere dal contesto storico in cui Eltchaninoff ne parla – vale a dire la Russia del secolo breve che un titolo enigmatico enfatizza – il lettore ha tra le mani una sorta di saggio sull’utopia. Come l’autore l’affronti, è un’altra storia. La coppia utopia/rivoluzione è stata centrale nel dibattito politico e filosofico del Novecento. Basti pensare a Münzer di Ernst Bloch del 1921 e a Ideologia e utopia di Karl Mannheim del ’29: il primo, scritto a rivoluzione ancora calda, il secondo a rivoluzione ormai conclusa. Dello stretto rapporto che intercorre tra l’ideologia della rivoluzione approntata da Lenin e l’utopia cosmista qualcosa traspare dal saggio. E curiosità a parte, forse è il solo motivo per cui vale la pena leggerlo.
Intanto: Lenin ha camminato sulla luna. Che significa? Che aveva da offrire anche lui la sua bella utopia? Parrebbe di no, considerando i giudizi tranchant riservati al dirigente bolscevico, reo di aver trattato in malo modo alcuni compagni di partito – per tutti, Aleksandr Bogdanov – troppo inclini a coltivare una visione del socialismo ispirata alla filosofia del cosmismo piuttosto che a quella marxista trasmessagli da Plechanov. Fantasiosa e audace la prima, “razionalista e del tutto concentrata sull’esercizio del potere”, la seconda. “Utopici possono invero considerarsi soltanto quegli orientamenti che, quando si traducono in pratica, tendono, in maniera parziale o totale, a rompere l’ordine prevalente”[1]: se teniamo a mente questa definizione di Mannheim, allora Fëdorov starebbe per “utopia” mentre Lenin per “ideologia”.
Ma più importante dei nomi è aver posto a tema l’endiadi, aver sottolineato con forza che la Rivoluzione o si alimenta di utopia o non è, e che a isterilire l’utopia della rivoluzione russa è stato proprio il marxismo di Lenin nel momento in cui, cominciando a legittimare l’esistente, facendosi ideologia, non aveva il problema di essere realizzato. Se “la ricerca di novità assoluta in ogni ambito della vita sociale è un merito che la Rivoluzione vuole arrogarsi”, quella russa ha smesso troppo presto di sognare la luna.
Il rivoluzionario coerente non rinuncia all’utopia né prima né dopo l’evento, piuttosto se ne inebria fino a morirne. Lenin non apparterrebbe a questa genia e infatti Eltchaninoff non gli concede alcuno sconto, neppure quello di essersi costretto, per pagare pegno al presente, “a trattenere la sua anima per le ali” – così Gorkij, il suo defensor causae[2] – per via dei tanti, troppi problemi da risolvere sul momento. Come dire che Lenin aveva provato ma che la sua utopia di assalto al cielo era durata il tempo di aprire gli occhi sul sogno presto svuotato di senso dalla sua fattiva traduzione. Sì, la Rivoluzione è desiderabile quanto si vuole ma poi arriva inesorabile il confronto con la realtà effettuale, con le forme concrete della vita sociale.
Chiacchiere per Eltchaninoff, solo un pour parler per giustificare un evento di per sé improvvido se non fosse per la “speranza” suscitata negli eredi di Fëdorov “di realizzare i loro sogni” [3]. E infatti la rivoluzione bolscevica, che Lenin ha perseguito per tutta la vita, “ha permesso il ritorno del cosmismo in una nuova forma”. E qui Eltchaninoff pensa al filosofo Bogdanov, al teorico d’arte Lunačarskij, allo scrittore Gor’kij, tutti raccolti attorno al Proletkul’t e “tutti vicini a Lenin, per poi allontanarsene”. La vita artistica e scientifica della Russia rivoluzionaria degli anni venti ne era intrisa. Al risveglio ottocentesco dell’anima russa – ché di questo si era occupato Fëdorov – seguirebbe ora una riforma della coscienza russa per mano di questi bolscevichi che del cosmismo del fondatore avrebbero ereditato l’impegno a rinnovare la Russia e il mondo. A spingerli a cercare da quella parte – Bogdanov in verità si era rivolto all’empiriocriticismo di Mach e Avenarius – la convinzione che Marx non aveva nulla da offrire in proposito, s’intende una buona filosofia per i nuovi tempi.
Per tornare a Lenin, a Eltchaninoff non va giù il suo modo di procedere pragmatico e utilitaristico, inconciliabile con la carica utopica, questa sì senza confini, dei bolscevichi cosmisti. Troppo presto, sostiene, Lenin ha “smesso di fingere che la Rivoluzione russa non sia altro che l’avvento di un’epoca di continua sperimentazione”. Era destino che, lui al timone, la barca della Rivoluzione facesse naufragio contro la dura realtà. La verità è che per Eltchaninoff Lenin conta solo in funzione della vittoria del cosmismo di Fëdorov sul suo comunismo e poco gliene cala della sua presunta insipienza politica o della crudeltà della storia. E il cosmismo, dice, ha vinto alla grande incarnandosi poco alla volta “nel cuore della storia sovietica, nella sua coscienza più profonda”.
Soviet New Age viene chiamato il lungo periodo brezneviano (’64-’82) durante il quale il cosmismo esce finalmente allo scoperto e acquisisce “una popolarità inaudita, che va oltre gli ambienti intellettuali, artistici o alternativi”. Che i dogmi del marxismo-leninismo dopo la morte di Stalin non funzionassero più, non era un mistero neppure per Michail Andreevič Suslov, alla direzione dei mezzi d’informazione di massa, della censura, della cultura e dell’arte della Russia di Brežnev. La sovietizzazione del cosmismo contribuirà alla sopravvivenza del sistema già in forte affanno. E l’operazione fu possibile solo “perché l’ideologia sovietica spingeva logicamente l’Urss a voler vincere la morte e invadere il cosmo”, due capisaldi dell’utopia cosmista. L’ideologia che accoglie l’utopia, l’abbraccia e la coccola. Quale modo migliore per neutralizzarla! E infatti non pare che il cosmismo abbia contribuito granché alla dissolvenza del socialismo reale né la sua implosione ha sortito gli effetti sperati. Chi si aspettava che sulle macerie del marxismo-leninismo il cosmismo affermasse la sua egemonia nella nuova Russia di Putin è rimasto deluso. Nella Russia postsocialista il cosmismo si è trovato svuotato di quella carica utopica che nella lotta mortale per il riconoscimento aveva costituito l’antidoto all’ideologia della rivoluzione. Quella lotta è finita da un pezzo e la Rivoluzione ha fatto ormai il suo tempo. Ricompostasi l’unità del mercato mondiale, oggi nel bazar culturale russo si trova di tutto e di più, dall’eurasismo di Aleksandr Dugin, alla noosfera di Vernadskij rivisitata dal filosofo Dmitrij Muza, dal transumanismo importato dall’occidente anglosassone al postumanismo “di natura esclusivamente accademica”. Senza dimenticare il cosmismo. La nuova ideologia del mercato ha imparato fin troppo bene a ridurre a valore di scambio ogni cosa, compresa l’utopia cosmista che si guarda bene dal combattere, e a incassare il dovuto. Ma neanche intende soppesare le sue promesse esponendosi al rischio dei giudizi di valore. Nel suo completo disincanto non discrimina e non censura e così facendo evita quella relazione simmetrica che aveva caratterizzato precedentemente sia l’ideologia che l’utopia. Nella Russia odierna non c’è più posto per la lotta per il riconoscimento.
[1] K. Mannheim, Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna 1968, p. 189
[2] M. Gorkij, Lenin, Castelvecchi Edizioni, Roma 2017, p. 43
[3] Sogni cosmisti sono ad esempio quelli espressi nel suo vis-a-vis con Lida
dall’artista di A. Čechov nel racconto La villa col mezzanino: liberazione dal lavoro fisico, onnipotenza della scienza e della tecnologia, cooperazione e fratellanza universali, sconfitta della morte e prospettiva di una vita eterna per l’uomo, etc, etc. L’utopia cosmista è proprio in questa disperata ricerca delle cause ultime, in quel: “Non riconosco, io, una scienza che si occupi di curare […]. Scienze e arti, quando son veramente tali, si rivolgon non già a ciò ch’è temporale, non già a fini parziali, ma all’eterno e all’universale: cercano la verità e il significato della vita, cercano Iddio, l’anima;[…]”, A. Čechov, Racconti, vol. II, Einaudi, Torino 1978, p. 38.