Ideale prosecuzione di Come cambiare la tua mente (Adelphi, 2019), fortunatissimo riepilogo storico, farmacologico ed esperienziale della questione psichedelica dalle origini agli sviluppi più recenti, questo This Is Your Mind On Plants, uscito negli Usa nel 2021, approfondisce il discorso sulle sostanze psicoattive soffermandosi solo su tre di esse: l’oppio, la caffeina e la mescalina. Michael Pollan parte dalla riflessione su cosa sia una droga, una sostanza che produca cambiamento fisico o mentale o entrambi in chi la assume: cioè praticamente qualunque alimento. Ma il fatto che sorbire un’infusione di camomilla non sia reato mentre fare altrettanto con un’analoga infusione di papaver somniferum lo sia, definisce una netta separazione tra gli alimenti, le droghe, aggiungendo un aggettivo, illecita, al sostantivo droga: una droga illecita è qualsiasi cosa un governo decida sia tale. Diventano illecite dunque tutte quelle sostanze che “hanno il potere di determinare nella coscienza cambiamenti che vanno contro il regolare funzionamento della società e gli interessi del potere costituito”. Questo fa sì per esempio che siano permessi tè e caffè – utili al capitalismo nel loro incrementare l’efficienza e la produttività della nostra mente – e vietati gli psichedelici, non più tossici della caffeina e assai meno induttori di dipendenza. Queste classificazioni, ci spiega Pollan, non sono sempre cosi fisse e la concezione di utilità o pericolosità per il funzionamento delle diverse società nel corso della storia, è variata più volte: “le società tollerano le droghe che cambiano la mente quando contribuiscono ad appoggiare il dominio della società e le proibiscono quando ai loro occhi lo minano. Per questo le sostanze che una data società decide di considerare psicoattive ci dicono molto sia delle sue paure che dei suoi desideri”. È il motivo che rende particolarmente utile ed interessante conoscerle e studiarle.
Il primo capitolo, Opium Made Easy secondo il testo originale, recupera un vecchio articolo apparso su Harper’s Magazine nel 1997 – nel pieno della “lotta contro la droga” intrapresa dalla DEA (Drug Enforcement Administration) sotto gli auspici del presidente Clinton –, mai pubblicato nella sua interezza e finalmente, nell’odierno clima assai più tollerante sul tema, aggiornato e riproposto integralmente. Con l’abituale verve Pollan racconta dei suoi tormentati tentativi da floricultore atipico di coltivare papaveri da oppio nel suo giardino e di sperimentarne i poteri seguendo i consigli di estrazione e preparazione divulgati dall’hippy Jim Hogshire nel suo libro “proibito” Opium for the Masses (per la cronaca, il testo circola oggi tranquillamente e me lo sono procurato senza alcun problema on line). L’improvviso arresto di Hogshire con l’accusa di detenzione e spaccio di oppiacei getta il povero Pollan nella totale paranoia (si rischia oltre all’arresto anche il sequestro totale della proprietà dove vengono coltivati i corpi del reato): un compromettente scambio di email tra i due potrebbe inchiodare il brillante giornalista alle stesse imputazioni contestate all’improvvido hippy. Tra incubi notturni, telefonate in incognito a ispettori della DEA e spasmodiche consultazioni di avvocati e di fioristi, Pollan vede crescere con compiacimento e timore gli splendidi bulbi nel punto meno esposto del suo giardino. Intanto, mentre il governo si accanisce oltre misura contro consumatori occasionali e coltivatori dilettanti, la multinazionale farmaceutica Purdue Pharma – appartenente alla famiglia Sackler, magnati dell’oppio e suoi derivati – sta intossicando indisturbata gli interi Stati Uniti con l’OxyContin, oppiaceo a lento rilascio spinto sul mercato come antidolorifico su prescrizione: un fatturato che fa incamerare ai produttori più di trentacinque miliardi di dollari al costo di duecentotrentamila morti per overdose. Sull’onda di queste fosche riflessioni Pollan porta a compimento il raccolto e la sua intenzione di sperimentarlo: è tentato dal laudano sulla scia di De Quincey – “da una buona capsula verde disciolta in un bicchiere di vodka si può ricavare l’equivalente di una dose di eroina”, gli hanno detto – ma alla fine opta per il non alcolico tè d’oppio, secondo le indicazioni del mussulmano e quindi astemio Hogshire, le pagine dedicate all’esperienza saranno espunte (ed oggi reintegrate), su consiglio del suo legale, dal testo pubblicato su rivista. Il resto dei papaveri prodotti verrà abbandonato a decomporsi “sul mucchio di compost in un angolo dell’orto”. L’articolo, dove Pollan si scaglia contro il proibizionismo in nome del tradizionale individualismo americano, la libertà – a casa mia, sulla mia proprietà – di farmi un tè al papavero per l’emicrania come mi faccio una tisana alla valeriana per dormire meglio o di coltivare mele “se voglio produrre un litro di sidro forte al preciso scopo di ubriacarmi”: “No Trespassing! Vietato entrare!”, verrà pubblicato senza alcuna conseguenza: probabilmente il governo pensò di avere più da perdere che da guadagnare avviando una battaglia legale contro una ben nota rivista nazionale.
Il secondo capitolo è dedicato alla droga, perfettamente legale, più diffusa al mondo: la caffeina, che sotto forma di caffè, tè, cacao, bibita gassata e altri veicoli minori, ci ha assuefatto in modo quasi onnipervadente. Per dimostrarlo lo scrittore ne interrompe bruscamente l’assunzione, sotto qualsiasi forma, per tutta la durata della preparazione e della stesura del pezzo in questione: gli effetti sono subito evidenti, mal di testa, letargia, difficoltà di concentrazione, perdita di fiducia, calo della motivazione, disforia. L’effetto peggiore, ci confessa, è l’incapacità di portare a termine il lavoro cominciato: il capitolo sulla caffeina rischia di restare incompiuto per mancanza di caffeina.
Se gli alcaloidi, generalmente induttori di sapori amari e sgradevoli, si sono evoluti nelle piante per tenere a bada parassiti e predatori, la caffeina ha il compito di attrarre piuttosto che respingere gli insetti: le api e gli impollinatori ricordano il fiore caffeinico e ci tornano con maggiore entusiasmo. Lo sballo dell’insetto non è troppo lontano da quello umano. Le piante con caffeina ci hanno condizionato quanto e più di come hanno fatto per le api: un umile arbusto diffuso all’inizio solo in Etiopia dove i pastori avevano osservato l’euforia delle capre che lo consumavano, intorno all’850 d.C., viene usato per un’infusione dall’abate di un monastero che ne scopre le proprietà stimolanti; il kahve, vino d’Arabia, valida alternativa all’alcol perché non proscritto dal Corano, si diffonde tra i sufi del mondo islamico per evitare l’assopimento durante le cerimonie religiose (così il tè, usato come medicinale in Cina fin dal 1000 a.C., diventa uno stimolante spirituale per la meditazione dei monaci buddhisti); alla fine del ’500 Costantinopoli è già piena di caffetterie, un veneziano le vede ed esporta l’idea in Occidente, meno di un secolo più tardi, prima Venezia e poco dopo Londra, sono a loro volta piene di locali pubblici dove uomini di classi diverse si riuniscono sorseggiando caffè, per conversare, scambiarsi idee e fare affari (il Lloyd’s Coffee House diventerà l’agenzia di intermediazione assicurativa Lloyd’s di Londra). Come era coincisa con il momento di massima espansione dell’Islam turco (ma anche quella del tè coincide con l’età dell’oro della dinastia Tang in Cina), la diffusione del caffè in Occidente, va in parallelo con la Rivoluzione scientifica, il consolidarsi dell’Illuminismo e la Rivoluzione industriale. “Ben difficilmente il tipo di fermento politico, culturale e intellettuale scaturito nei caffè di Francia e Inghilterra avrebbe potuto svilupparsi in una taverna. Se l’alcol alimenta le nostre tendenze dionisiache, la caffeina nutre quelle apollinee”.
La caffeina non è mai stata considerata illegale, nonostante la sua alta induzione di assuefazione, in quanto droga sintonica con il capitalismo e il colonialismo: l’industria britannica ottimizzava il rendimento degli operai grazie al consumo di tè e caffè e la Compagnia delle Indie, Occidentali e Orientali, promuoveva la coltivazione del caffè in tutta l’America centrale e meridionale (insieme allo zucchero di canna come dolcificante, incrementando così anche l’importazione di schiavi dall’Africa) e del tè in India (insieme all’oppio esportato a forza in Cina: “affinchè la mente degli inglesi fosse acuita dal tè, quella dei cinesi dovette essere ottenebrata dall’oppio”). Due culture caffeiniche principali si sono così consolidate, parallele e antitetiche, quella del caffè e quella del tè: Pollan riporta un divertente elenco di opposti: maschile/femminile; informale/cerimoniale; americano/inglese; estroverso/introverso; occidentale/orientale; Beethoven/Mozart; Balzac/Proust ecc. “Perché il caffè e il tè, appagando il desiderio umano, non solo ne hanno tratto vantaggio come molte altre piante, ma hanno anche dato una mano a costruire precisamente il tipo di civiltà in cui potevano prosperare meglio: un mondo accerchiato dal commercio globale, pilotato dal capitalismo dei consumi e dominato da una specie che ormai riesce a malapena ad alzarsi dal letto senza il loro aiuto”. Anche Pollan non riuscirà a rinunciare del tutto alla caffeina come si era ripromesso: terminerà il suo scritto ma, se non altro più consapevole, al prezzo di ripristinare la sua golosa dipendenza.
L’ultimo capitolo si sofferma invece sulla mescalina: un classico della psichedelia essendo stata la prima sostanza che Aldous Huxley sperimentò nel 1953 descrivendone gli effetti in Le porte della percezione e aprendo così la strada alla successiva pratica allucinogena occidentale (più in sordina già Antonin Artaud ne aveva constatato il potere, in un contesto rituale indigeno, recandone testimonianza nel 1936 in Al paese dei Tarahumara). Eppure, nonostante il suo primato, questo enteogeno contenuto in certi cactus, in particolare il peyote messicano (Lophophora Williamsii) e il San Pedro peruviano (Echinopsis Pachanoi), è oggi più raramente ricordato in confronto agli equivalenti alcaloidi derivati dai funghi, come l’LSD – dietilamide dell’acido lisergico (sintetizzato dall’ergot, un fungo parassita della segale cornuta) e la psilocibina, o da altri vegetali come l’ayahuasca. In effetti, ci spiega Pollan, queste sostanze non sono esattamente omologhe: la mescalina non ci trasporta in un altrove fantasmatico, in presenza degli dei o degli antenati, non forza le porte dell’aldilà, ma ci radica più profondamente nell’aldiqua, ci squaderna la realtà e la presenza del qui e ora, in tutta la sua abissale profondità; inoltre è più scomoda perdurando l’alterazione della coscienza per tempi molto più lunghi, fino a quattordici ore, esperienza che potrebbe rivelarsi estenuante. Ma le testimonianze gli riferiscono del “‘calore’, della ‘pacatezza’ e della ‘lucidità’ della mescalina […] a confronto con l’‘eccitabilità’ spigolosa dell’LSD e i terrori più che occasionali dell’ayahuasca”.
Pollan riferisce dell’importanza della ritualità legata al peyote per la comunità nativa americana, della “Danza degli spiriti” introdotta dal profeta “pellerossa” Wowoka nel 1890, che aveva ridato unità intertribale e dignità ai popoli indigeni e che era stata stroncata nel sangue dai bianchi con il massacro di Wounded Knee. Più tardi, nel 1918, si era ricostruita una Chiesa nativa americana, più cristianeggiante, che esiste a tutt’oggi e che ha il permesso legale del governo statunitense di utilizzare per fini rituali il peyote nelle proprie celebrazioni (che escludono comprensibilmente i “visi pallidi”). Mentre tenta con certa difficoltà di farsi ammettere a un rito con una pianta sacra, Pollan sperimenta una dose di mescalina sintetizzata la cui esperienza definisce – ancora sotto l’effetto della sostanza – “coscienza haiku” e paragona alla poesia di William Carlos Williams.
Quando finalmente sembra aprirsi qualche breccia nel riserbo dei peyoteros nativi, ci si mette di mezzo anche la pandemia di covid e il lockdown e, come se non bastasse, la catena di devastanti incendi in California. Aggirando con tutte le precauzioni le disposizioni prescritte lo scrittore riuscirà finalmente a sperimentare in un contesto rituale di guarigione spirituale – pur se non direttamente legato alla Chiesa nativa che non ammetterebbe dei bianchi – la pianta originale, il Wachuma, cioè il San Pedro. Descriverà in termini commoventi, a chiusura del libro, la celebrazione liberatoria che avrà effetti catartici particolarmente importanti soprattutto per sua moglie Judith, all’inizio un po’ scettica.