Ho letto L’ultima cosa bella sulla faccia della terra di Michael Bible in un pomeriggio, era ancora caldo. Ho pianto. Ho pensato che avrei voluto abbracciare Iggy, consolare Cleo. Avrei anche voluto dire qualcosa a Paul. E anche sedermi allo Starlight Diner ad ascoltare la gente di Harmony ripetere le solite storie, che tanto per me sarebbero state nuove. Ho pensato che mi sarei voluta sedere tra i cuscini della vasca da lettura della nuova biblioteca. Ho pensato ad altri romanzi, fatti di niente e di tutto, fatti di gente normale con vite normali che appunto normali non sono mai, perché la tragedia vera e la salvezza vera stanno lì dove sta anche la vita. Arrivano improvvise e impreviste, le cose, portano distruzione e sgomento, poi portano una zatterina sulla quale qualcuno riesce a salire e mettersi in salvo.
Non è Iggy che si mette in salvo. Iggy ha cercato di darsi fuoco nella Chiesa Battista di Harmony, ma alla fine è scappato e la chiesa ha preso fuoco senza di lui. Sono morti in venticinque. Iggy aveva milioni di ragioni per darsi fuoco, e poi improvvisamente non ne aveva più nemmeno una. Ma non è bastato e non ha funzionato. Il fuoco è partito lo stesso, ha bruciato tutto e tutti.
Ora che sta per essere giustiziato, Iggy racconta la sua storia, in uno dei capitoli più commoventi e strazianti del romanzo. Una storia che Iggy stesso ci dice che forse non è vera, ma tanto vale, visto che la verità è la prima vittima delle indagini e dei resoconti. Forse non esattamente la prima vittima e forse solo una delle tante. Alcune innocenti e alcune colpevoli, o anche entrambe, un po’ innocenti e un po’ colpevoli. Come siamo tutti.
Anni dopo la tragedia, Harmony è cambiata ma è anche rimasta la stessa. Una cittadina della South Belt, una cittadina americana qualunque. La Chiesa Battista anche, è cambiata e rimasta la stessa. L’edificio è andato distrutto, ma la colpevolezza no. Quell’eccesso di zelo, quei tradimenti. La Chiesa Battista chiusa nei suoi precetti rigidi, da rispettare senza cuore e senza empatia. La Chiesa Battista che ti accoglie solo se sei come loro o lo diventi. La Chiesa Battista che ha preso la fiducia, la debolezza, la fragilità dei suoi fedeli e li ha abusati e traditi. Dal nostro cattolicesimo rigoroso e papale queste Chiese americane, di qualsiasi derivazione, che si fondano su una dottrina parziale e rimasticata, semplificata e ritagliata con l’accetta, sembrano un po’ ridicole e un po’ aberranti. Un po’ entrambe le cose, e in fondo inquietanti. Ma sono vere e sì, possono essere terribili.
Come terribile è la provincia, quella del Sud, quella americana ma quella di ogni paese. Con l’isolamento, il male di vivere. Con l’adolescenza che sembra infinita, insopportabile. La Costante, la chiamano Iggy e i suoi amici Paul e Cleo. Quella condizione di dolore e disperazione da cui si esce, si crede di uscire con la droga, l’alcool, le notti insonni a guidare senza meta, le giornate passate a guardare film dell’orrore e a smaltire sbornie e stupefacenti. L’amicizia aiuta. Ma non è che se ne esce davvero. Resta appunto una Costante. E tutto chiede salvezza, si potrebbe dire usando il titolo del libro di Daniele Mencarelli e della serie Netflix. Iggy cerca una salvezza che sia in realtà un riposo, un senso di appartenenza. Del calore, della quiete. Intuisce che la salvezza sta dentro di noi e non fuori da noi. Ma quando arriva all’illuminazione è troppo tardi. Cleo cerca una salvezza che sia libertà. Forse ce la fa. E Paul aveva solo cercato di essere sé stesso. Magari la salvezza è solo misericordia. Una pietà reciproca, da donarci l’un l’altro. Apre alla possibilità della grazia, della comprensione della nostra complessità, dell’accettazione della nostra imperfezione, questo romanzo molto bello di Michael Bible. Che non è disfattista né nichilista. Non commuoverebbe così profondamente, altrimenti.
È un romanzo puro ed essenziale, che arriva diretto al cuore come la musica. È stato paragonato a Faulkner, con cui ha in comune anche l’ambientazione nel profondo sud degli Stati Uniti, la presenza forte della religione, il soffoco del conservatorismo, e sì, il rifiuto di accettare la distruzione dell’uomo. A me però ha fatto piuttosto venire in mente Kent Haruf, per quel modo di raccontare l’ambiguità delle nostre anime senza giudizio, di cogliere la sofferenza ma anche gli attimi di tregua e le ultime cose belle. Quel modo di raccontare la vita per cui noi lettori ci sentiamo come Walt Whitman, come se contenessimo moltitudini, e ci potessimo espandere.