“Airbnb è uno strumento di accumulazione di profitti e di concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi proprietari assenti che affittano le case a turisti di passaggio, portando al rialzo i valori immobiliari e i canoni di locazione, alla contrazione dell’offerta di case in affitto, e dunque all’espulsione del ceto medio e basso dai centri storici”.
Al netto di ogni retorica questo è la piattaforma Airbnb.
Il saggio decostruisce due narrazioni. La prima ci ripropone il mito della start-app nata in un garage da volenterosi con un’idea brillante che magicamente si afferma con forze proprie (quindi – sottotesto – chiunque può fare lo stesso). Non è proprio così: senza i “capitali di ventura” della Silicon Valley, accumulati negli anni con finanziamenti pubblici sulla ricerca e il lavoro di milioni di lavoratori invisibili, Airbnb non avrebbe potuto decollare. (Per inciso l’estrema concentrazione dei capitali sta minando lo stesso ecosistema produttivo della Silicon Valley).
L’altra narrazione ci tocca più da vicino, ed è quella della condivisione, della share economy, del risolvere da soli quei problemi di precarietà e mancanza di reddito che invece Airbnb – nata proprio in “un contesto di recessione economica (…) e finanziarizzazione della casa a livello globale” – contribuisce ad acuire.
I dati sono accurati e aggiornati al 2019 e indicano con precisione che Airbnb vive sui profitti derivanti da una minoranza di host, gestori però di centinaia di case vuote destinate agli affitti brevi; host che si accaparrano la stragrande maggioranza dei guadagni, mentre il “tipico” host di Airbnb, quello che condivide la sola casa dove abita, in realtà riceve solo le briciole di questo immane flusso di denaro.
Queste due narrazioni s’intrecciano, in particolare in Paesi come il nostro, all’enorme trasformazione che le città d’arte stanno subendo: la mutazione da luoghi per abitare a luoghi riservati esclusivamente ai turisti (un esempio su tutte, Venezia): veri e propri “prodotti” da vendere, privatizzare e capitalizzare in pochissime mani.
Airbnb non solo contribuisce al ridisegno mercificato delle città ma, agendo come promotore di “comunità” brandizzate di host e con campagne pubblicitarie milionarie, cerca di piegare ai propri interessi i regolamenti delle città. Associazioni e alleanze inedite di inquilini sfrattati e altri soggetti sono però riusciti con le loro lotte a imporre a città come New York e alla stessa San Francisco (dove Airbnb è nata) regolamenti a favore degli abitanti. Altre municipalità, come Barcellona e Berlino cercano di normare e controllare il fenomeno a favore dei propri abitanti e del bene pubblico. Anche in Italia, dove Airbnb prolifera senza controllo e senza alcuna riflessione politica, se non il vago discorso sul fare pagare le tasse alla piattaforma, si vanno formando associazioni e reti dal basso come la Rete SET (Sud Europa contro la Turistificazione).
Un libro importante, come è stato riconosciuto da più parti, che è il primo studio serio uscito in Italia sull’argomento ma che forse non si sofferma con la dovuta attenzione sulla gran massa dei lavoratori di Airbnb, quei “tipici” host di cui abbiamo parlato sopra.
Da 4 anni sono host Airbnb in una piccola città del Nord Est fuori dalle mete turistiche tradizionali perché, come scrive l‘autrice del saggio, per le persone come me il welfare e quel che ti manca per arrivare a fine mese è demandato alle grandi piattaforme che ti elargiscono pochi euro in cambio del tuo tempo, la tua casa, le tue capacità relazionali.
Ora, ogni lavoro porta con sé la sua maledizione e la sua necessità ma anche nuovi possibili concatenamenti di senso e di relazioni; senso e relazioni che non possono mai essere spontanei perché sempre originati da una vicinanza forzosa: che siano dentro un’officina e legati a una macchina, o dispersi e comandati da una piattaforma, come in questo caso.
Per essere un lavoratore di Airbnb devi mettere in gioco qualcosa, devi pulire e rendere decente la casa, altrimenti la gente ti scrive un giudizio negativo e non torna. E questo, mi dico quando cambio le lenzuola e lavo il bagno, è l’unica volta in vita mia in cui il lavoro domestico mi è stato pagato. Un bel paradosso! Devi essere ospitale. Ma forse anche perché vivo in una piccola città e la gente che pernotta non viene per turismo ma per interessi personali (operai, ingegneri, infermieri, studenti, giovani per un colloquio di lavoro, ballerini di tango in gara, musicisti per concerti o corsi, attori che non hanno l’albergo…) mi viene spontaneo essere solidale e condivisiva.
Molte volte mi è capitato di portare qualcuno da qualche parte, di imprestare la bicicletta o di fermarmi a parlare con, per esempio, una donna che aveva un compagno violento e ne portava i segni sugli occhi neri oppure con una donna italiana ma di origine cinese che deve mettere una foto travisata perché altrimenti la gente che affitta le stanze non la accetta. Peggio ancora se sei omossessuale (è accaduto a un ospite!). Ognuno ha una storia particolare, vite, attitudini, convinzioni che non sono le mie o a volte sì, ma la convivenza mi costringe a usare altri parametri, perché quando non sei solo in casa, stai con degli sconosciuti e ti devi per forza mettere in gioco; più che in una famiglia ti senti in uno studentato e capisci che le relazioni sono davvero qualcosa di “non naturale”. D’altra parte anche le relazioni di vicinato e di comunità nascono sempre da una costrizione: non decidi chi sono i tuoi vicini, che molte volte sono insopportabili quanto e più dell’ospite che ti arriva inaspettato in casa. Relazioni di vicinato significative e resistenze sono da sempre nate per una decisione condivisa. La comunità non è mai data naturalmente.
Tornando al saggio, giustamente la Gainsforth a proposito del “turismo di qualità” e la sua presunta sostenibilità mostra quanto la contrapposizione fra il “viaggiatore” e il turista, nasconda un grande disprezzo di classe e indica la necessità di spostare il “focus su un concetto di vivibilità incentrato sull’abitare, perché sono gli abitanti che fanno la città: sono le politiche per l’abitare che rendono la città vivibile”. Ebbene di questi abitanti, che non vogliono andarsene dalla città, fa parte anche chi condivide la propria casa e che non sono fan acritici di Airbnb disponibili a organizzarsi in pseudo comunità brandizzate nel nome della piattaforma, ma persone che condividono con i propri ospiti il fatto di non aver abbastanza soldi per vivere. Cosa fare? È molto difficile indicare un percorso che li includa, ma certo la lotta alla gentifricazione deve necessariamente riguardare anche questi lavoratori della casa e i loro ospiti.
Due siti che approfondisco e forniscono strumenti critici sul fenomeno Airbnb:
- Il sito di Sara Gainsforth
- Inside Airbnb con la visualizzazione dei dati aggiornati in tempo reale della straordinaria diffusione di Airbnb nel mondo.