Nebbia e chiaro di luna aggiunge un ulteriore, importante tassello alla comprensione dell’universo narrativo di Meša Selimović, troppo a lungo considerato come l’autore di un unico libro, quel grande capolavoro che è Il derviscio e la morte, la cui fama ha in parte messo in ombra, con poche eccezioni, il resto della sua produzione. In realtà, come accade per Melville, la messe di lavori che costituisce la sua esperienza narrativa arricchisce la sua figura, che è più sfaccettata e complessa di quanto non appaia a prima vista.
La condizione conflittuale, ci troviamo all’epoca della guerra partigiana contro i nazisti, segna in modo indelebile gli uomini. I soldati vivono in condizioni precarie, senza abbandonare mai le armi, attraversano le campagne senza possibilità di requie, “e ancora a lungo non si sarebbero stesi e non si sarebbero alzati in pace, e non era un bene, si sarebbero incattiviti e avrebbero dimenticato l’ordine umano, si sarebbero abituati a dare poco valore alla propria e alla altrui vita”. In questa perdita di valore risiede il dramma della guerra. “Anche gli animali selvatici avevano paura degli uomini”. L’antinomia fra la vita di campagna e quella di città costituisce un topos della sua narrativa. La libertà si trova nel lavoro nei campi, nella strana catena di persistenza che unisce l’oggi al passato. Il chiaro di luna del titolo, spogliato di qualsiasi connotazione romantica, annega nella nebbia che avvolge le cose e le persone. Al conflitto è impossibile sottrarsi, in quanto bisogna prendere posizione. Il semplice gesto di appendere una bandiera bianca, mostrando di non essere in guerra con nessuno, non è consentito, perché verrebbe interpretato come un essere in guerra con tutti.
Il mondo di una volta, con il calore garantito dalla ritualità contadina, appare come un sogno sul punto di svanire, come il residuo di qualcosa che è definitivamente estinto. “Un tempo la sicurezza regnava in quel giardino”, che è come l’Eden prima della caduta. Ora la placida fattoria è divenuta un luogo di passaggio per combattenti, un rifugio per esistenze effimere. Una pioggia perenne impregna l’anima, insinuando una inarrestabile putrescenza nel cuore degli uomini, salvo poi sfociare in una siccità che inaridisce i corpi e le menti. L’esistenza appare come una tragedia senza riscatto. Ljuba si sente sola come nel fondo di una tomba. Il buio alberga dentro di lei. Come Ivan e Katarina, la coppia protagonista de L’isola, anche Jovan e la moglie vivono nella più profonda solitudine. La paura governa le loro menti. L’improvviso manifestarsi di un giovane soldato ferito, affidato alle cure di Ljuba, turba i già precari equilibri facendo balenare desideri a lungo sopiti.
Una impenetrabile oscurità ammanta il paesaggio percorso dai soldati e dai contadini, costretti a fare loro da guida in quanto conoscitori del territorio. In sentieri fangosi affondano i sogni di un’intera generazione di giovani, costretti ad abdicare alla propria esistenza per impugnare le armi. Selimović narra le loro vite partendo dell’esperienza di partigiano maturata nella resistenza, forte della capacità di conferire agli eventi un’aura leggendaria, intrisa di enorme potenza metaforica. Quegli uomini divengono allora simbolo di tutti gli uomini, costretti a morire nell’infinita conflittualità che intesse la storia. Il testardo marciare dei soldati pare condurli da nessuna parte, come se camminassero a vuoto, addita il destino di un’umanità votata all’inutile sofferenza. La guerra in realtà risuona in sottofondo, per concretizzarsi nel finale. Quello che interessa Selimović è l’abisso che separa le persone, la barriera che gli impedisce di comunicare, il mistero impenetrabile dell’esistenza. Tutto è già successo. “Gli uomini non si abituano a nulla nonostante tanti altri abbiano vissuto quelle stesse cose molto prima. La guerra c’è sempre stata, da quando esiste il mondo, eppure, quando ricomincia, si soffre”. La vita si manifesta allora come un’eterna ripetizione di eventi dolorosi, di fronte ai quali ogni ribellione è vana.