Nel mondo di Meša Selimović l’uomo è solo di fronte alla tragedia dell’esistere. Nessuno può aiutare i propri simili, né può attendere aiuto da loro. Forse in questo dramma dell’umano, perennemente attuale, risiede il filo conduttore che unisce Il derviscio e la morte, La fortezza e L’isola in un’imponente trilogia. Quest’ultimo titolo, forse il meno noto, viene meritoriamente riproposto al lettore italiano. La frammentarietà della costruzione marca un’apparente alterità rispetto agli altri due romanzi anche se, al lettore attento, non sfuggirà il legame sotteso a queste opere. Un fascino da leggenda ammanta l’intera narrativa di Selimović, una qualità visionaria intrisa di potenza metaforica. Il microcosmo dell’isola assume così risonanze cosmiche.
I racconti che compongono il romanzo, apparentemente eterogenei, costituiscono un affresco sull’assurdità dell’esistenza; piccole storie di vita quotidiana grondanti crudeltà. I due protagonisti, Ivan e Katarina, abitano accanto al cimitero. La loro vita appare fantasmatica, apparentata con la morte. L’oblio li minaccia. Nessuno li ricorderà, perché non hanno avuto la forza di sottrarsi all’anonimato nel quale precipita la maggior parte degli esseri umani. Sul crocevia del tempo la vecchiaia attende gli uomini come una punizione.
Un capriccioso creatore scompagina le menti, precipitando l’esistenza nel caos. Funerali deserti ricordano che l’uomo vive e, soprattutto, muore solo. L’esistenza in Paesi stranieri è foriera di un’immensa tristezza. Chi è stato costretto ad abbandonare la propria casa per lavorare altrove trabocca di parole inespresse. Nessuno può capirlo. La vita è un esilio perenne e la libertà un’utopia. La grande città è un luogo orrendo nel quale le persone si ignorano, dove non esistono rapporti di buon vicinato. Come in una tela di Munch, l’espressione gronda dai loro volti quasi fosse un sudario. Nell’aridità dei rapporti a tratti emerge la pietas, un sentimento di attenzione per i deboli. Così un cane malandato appare come un essere umano indifeso, dapprima scacciato e poi compatito, in quanto simbolo del nostro comune destino. Nei palazzi anonimi persone muoiono senza che nessuno se ne accorga. Sensi di colpa feroci attanagliano i protagonisti.
L’isola è allora un rifugio dal quale non si può tornare indietro. Anche l’apparente idillio della natura si rivela terribile. “Sull’isola rimpiangevano il dinamismo della città; in città rimpiangevano la pace dell’isola”. L’alienazione è il loro destino. L’anelito libertario si manifesta nella natura, in un branco di cavalli selvaggi i quali, a loro volta, sono governati dagli uomini. La vita libera è allora solo apparenza, perché in realtà tutti siamo circondati da recinti, da gabbie che ci tengono prigionieri. L’uomo è destinato a rimpiangere tutto ciò che non è stato. Selimović, seduto sull’orlo dell’abisso, sembra disseminare indizi di una verità che non si può ricomporre. Per quanti sforzi si facciano, la vita resta enigmatica e inattingibile.