Quello che si impara presto o tardi ad andar per boschi è che il “fungo” non è quello che si vede, che magari si raccoglie e si porta in tavola, che è il suo frutto, il “fungo” vero comprende il micelio, la massa filamentosa formata dalle ife che è meglio lasciare interrata. Quello che scopriamo invece attraverso le pagine de L’ordine nascosto è che grazie al micelio il “fungo” può estendersi sotto terra per chilometri, in una ragnatela di tubicini del diametro di una cellula (Sheldrake lo chiama wood wide web) che messa insieme coprirebbe il 7% della superficie terrestre; che miliardi di anni fa ha accompagnato l’esodo delle piante dal mare alla terraferma e, in tempi più recenti, sedotto gli umani con i lieviti della fermentazione alcolica, dopo averne forse favorito l’evoluzione di sapiens con il dono magico della psilocibina; che, almeno nel caso del Cladosporium sphaerospermum, può vivere nel reattore di Chernobyl e, forse, anche su Marte; che, infine, è in grado di “dialogare” e di negoziare alleanze simbiotiche con gli altri organismi, scambiando sostanze nutrizionali e completando il proprio e l’altrui metabolismo in modo tuttora poco chiaro ai micologi.
Negli ultimi decenni, però, qualche progresso è stato fatto, anzi parecchi.
Merlin Sheldrake è un giovane biologo e ricercatore dello Smithsonian Tropical Research Institute, affascinato sin dalla più tenera età dalle relazioni tra gli esseri umani e i microrganismi che popolano il pianeta. A sette anni i genitori gli presentano niente meno che Terence McKenna, “psiconauta” e teorico dei funghi sacri, che è un po’ come, per un bambino appassionato di provette, ricevere il piccolo chimico direttamente da Albert Hofmann vestito da babbo natale. Da allora non ha smesso di girare il mondo alla ricerca delle meraviglie funghine. Il libro – Entangled Life. How Fungi Make Our Worlds, Change Our Minds and Shape Our Futures, ora tempestivamente tradotto da Marsilio – è il resoconto di questo viaggio attraverso la sua vocazione e le scoperte che negli ultimi decenni hanno reso la micologia una branca sempre più sexy tra i biologi.
Dal punto di vista tassonomico, i funghi sono considerati dai tempi di Linneo una specie di “regno di mezzo” a cavallo di altre forme di vita, un regno che sfida la nostra immaginazione e non solo quella. A differenza delle piante, non hanno embrioni e sono disposti a qualsiasi cosa pur di mettere in circolazione le loro spore e riprodursi. Negli ultimi decenni, lo studio dei funghi ha contribuito a demolire non poche certezze tra i ricercatori, non ultima la nozione stessa di “individuo” applicata alla selezione naturale e, indirettamente, l’idea stessa di un’identità non ibridata. I funghi micorrizici, caratterizzati dalla simbiosi mutualistica con l’apparato radicale delle piante, da cui ricevono carbonio in cambio delle sostanze estratte dai minerali nascosti nel terreno, ne sono un esempio e non certo un caso isolato, se si calcola che il 90% degli alberi oggi non potrebbero fare a meno di questa alleanza
Sheldrake mette in guardia da interpretazioni ingenue o antropocentriche: se il web funghino, agisce per molti aspetti come un’intelligenza distribuita e interconnessa, dinamicamente decentrata alla periferia dei suoi gangli, non sappiamo ancora con certezza come eventualmente “comunica” internamente. Sappiamo invece che non trasporta sempre, necessariamente amichevole nutrimento per il partner ma, all’occorrenza, può propagare sostanze velenose o psicotrope (la più utilizzata è proprio la psilocibina, misteriosamente presente anche in specie considerate soltanto lontane parenti). Sempre attraverso le ife, i funghi possono assumere il controllo di una cicala o di una formica e dirottarle per i loro scopi, infiltrando il sistema periferico dell’insetto (lasciandolo “cosciente”, per così dire). In modo assai più sottile, i funghi hanno condizionato dall’antichità anche il comportamento umano: parafrasando Gilles Deleuze, osserva Sheldrake, l’ubriachezza non è solo una ”trionfale irruzione delle piante in noi”, ma anche un’irruzione dei funghi che hanno permesso questa intossicazione favorendo, tra le altre cose, la popolarità dei lieviti di birra.
Grazie a ricercatori come Lynn Margulis o Carl Woese che negli anni ‘60-’70 per primi hanno ipotizzato il trasferimento orizzontale dei geni, e in pratica rivoluzionato la visione della filogenesi nella selezione naturale, siamo oggi consapevoli che la simbiosi non costituisce l’eccezione nella biosfera, ma la regola a partire almeno da batteri, archei o protozoi. Non era sicuramente così quando, nel 1869 il botanico svizzero Simon Scheweneden per primo ipotizzò la natura duale dei licheni, organismi simbiotici formati da funghi e alghe (o batteri fotosintetici): la dual ipothesis fu liquidata dai colleghi come una “storia d’amore melodrammatica”, fantasiosa e, soprattutto, “innaturale”. Bisogna aspettare una decina d’anni perché il termine stesso di “simbiosi” veda la luce e cominci a entrare nel lessico scientifico.
Oggi la simbiosi ci aiuta a capire anche il nostro posto nel mondo, che non è esattamente quello immaginato dal darwinismo fin de siècle. Sei anni fa un biologo (Scott F. Gilbert), uno storico della biologia (Jan Sapp) e un filosofo della scienza (Alfred I. Tauber) approdarono alla conclusione che “Siamo tutti licheni” (in The Quarterly Review of Biology, December 2012 , “A Symbiotic View of Life: We Have Never Been Individuals”) perché i criteri scientifici su cui basare una tassonomia vengono oggi a cadere non appena accettiamo che gli organismi non possono essere più definibili in quanto individui. Più recentemente, un altro biologo, David Griffiths, in uno studio significativamente intitolato “Queer Theory for Lichens” è andato oltre osservando che “La coevoluzione di umani e batteri intestinali ha dato forma alla morfologia e al comportamento di entrambi. Non è più possibile concepire un organismo di qualsiasi genere, esseri umani compresi, distinto dalle comunità microbiche con cui condivide un corpo.”
A scanso di equivoci: quello di Merlin Sheldrake è un libro appassionato e appassionante, che trasmette e fa nascere la passione dentro a ogni riga, e per densità e scrittura non ha niente a che vedere con la narrazione divulgativa di un David Quemenn.