Mentori ed eroi del pugilato

Marco Nicolini, Storie di pugili, Piano B Edizioni, pp. 172, euro 14,00

Scrivere di sport (e di boxe) è un’arte. Bisogna metterci corpo, cuore, cervello. Indifferentemente a quale categoria di peso letterario si appartenga.  “Picchiatore mancino costruito per la brevissima distanza e privo di quel dono del cielo che fa apparire un pugno, o una schivata, come una gemma fra i sassi”,  Marco Nicolini, classe 1971, ha lasciato da tempo le palestre in cui boxava. Il suo, però, non è stato un lungo addio. Da diversi anni, la politica e l’amore per il mare gli hanno lasciato il tempo di praticare quell’arte sulla pagina Facebook Nicolini racconta di pugili, riproposta in questo volume con l’aggiunta di inediti profili di boxeur.

Per i lettori stregati dalle pagine on boxing di Joyce Carol Oates o di Norman Mailer, per chi non ha mai assistito a un match dal vivo ma lo ha “rivissuto” attraverso le immagini imperfette di una videocassetta o grazie al racconto teso e trascinante di chi stava sotto il ring, le storie dei pugili sono tatuaggi indelebili. Se poi, in gioventù, hai indossato un paio di guantoni con la dedizione e lo spirito guerriero dei tuoi idoli – Mike Tyson e Marvin Hagler, confessa Nicolini – allora quelle storie diventano una mappatura in perenne espansione. Ampliata da una documentazione costante e attinta da libri, almanacchi, riviste messicane e americane, cartacee o online, puntualizza l’autore presentandoci la sua Top 50 – una scrematura sofferta a partire da ben quattrocento biografie di pugili – introduzione, già di per sé coinvolgente, al libro. Ma, voltando pagina, Nicolini spiazza tutti come un jab di Iron Mike al primo round: a inaugurare la lunga sfilata di protagonisti della boxe non è un campione bensì uno che i campioni li riconosceva d’istinto: Angelo Dundee, storico allenatore del giovane Muhammad Ali, nonché di Sugar Ray Leonard e George Foreman, giusto per citare alcuni calibri.

Mentori ed eroi. Necessari l’uno all’altro se la storia di un uomo nato per combattere è una sorta di epopea proletaria, monomito che, tanto nel trionfo quanto nella caduta, riproduce inesorabile gli atti di una tragedia greca. Dalla seconda metà del XIX secolo a oggi, Queensberry Rules o meno, per la maggior parte dei pugili la prima “palestra” in cui hanno affrontato il sapore del (loro) sangue, la durezza del respiro è stata il ghetto, il carcere, le sordide bettole di una città portuale. O l’arena di un circo. Jimmy DeForest (1868-1932) – Kid Woods il suo nome da pugile – era figlio di acrobati folli e temerari: prima di salire sul ring da professionista, fu anche domatore di leoni. Primo Carnera (1906-1967), il Gigante di Sequals, fu umiliato ed esibito in Francia come fenomeno da baraccone: il resto è leggenda. Black and white.

Perché la boxe è uno sport che non fa sconti a nessuno e la tragedia della forza (o della grazia) di un vincente non sempre è preludio alla sua tormentata redenzione. Tom Sharkey, Sonny Liston, Carlos Monzon, Tiberio Mitri: maledetti dal successo e poi risputati nei luoghi oscuri della loro anima. Jake LaMotta, Vinnie Pazienza: massacrati sul ring – vedi il capitolo Il massacro di San Valentino sull’incontro, disputato nel 1951, tra Jake LaMotta e Ray Sugar Robinson – e dal fato, a unirli è un’insondabile determinazione. La stessa dimostrata in tempi recenti dai campioni olimpici Anthony Joshua e Gennady Golovkin, da Deontay Wilder e Katie Taylor, dal 1998, appena dodicenne, campionessa dei pesi leggeri. Unica combattente in queste Storie di pugili, vibrante omaggio a chi, lottando sotto un firmamento di stelle artificiali, aspira al grande cielo.