Miriam Toews, Donne che parlano, tr. Maurizia Balmelli, Marcos y Marcos, pp. 253, € 18,00 stampa
recensisce VALENTINA MARCOLI
Tutto ha avuto inizio con Il racconto dell’ancella della Atwood. E’ «colpa» sua: da quel momento le donne hanno aperto gli occhi e si sono guardate allo specchio. Anni e anni di lotte per raggiungere il minimo sindacale dei diritti e poi accendiamo il TG e sentiamo ogni giorno di donne uccise dai compagni, e ragazze che vengono sfregiate con l’acido per motivi inesistenti.
Anche Miriam Toews è una guerriera, e la sua carriera lo dimostra chiaramente, sin da quando diciottenne fugge a Montréal da una rigida comunità mennonita. Sin da quando scrive per ribellarsi alle regole che la stringono nella morsa della sottomissione. I suoi primi lavori, inframmezzati da una pausa cinematografica memorabile con il regista Carlos Reygadas che la vuole in Luz silenziosa, nascono da esperienze personali che l’hanno segnata inesorabilmente e inevitabilmente giungono al cuore dei lettori.
Una continua ricerca della libertà, un ribellarsi al fondamentalismo religioso in cui è cresciuta, una fuga dalla tirannia e dal potere ingiustificato sono tutte tematiche molto care alla Toews, che infatti ritroviamo anche in questo suo ultimo lavoro. Basato sul processo che nel 2011 ha avuto luogo in Bolivia e che portò alla luce come 130 donne di una colonia mennonita siano state ripetutamente stuprate e anestetizzate con dello spray per il bestiame, di notte, da quelli che loro stesse credevano essere demoni, come punizione per i peccati commessi (quali peccati?), nel romanzo la Toews ci porta nella colonia mennonita di Molotschna, giusto per farci capire di cosa stiamo parlando.
La scena si apre con le donne della comunità che si lavano vicendevolmente i piedi, alla stregua di Gesù con i suoi discepoli. Dopo questo rito intimo consumato con spensieratezza si giunge presto al nocciolo della questione: tutte loro sono lì riunite per decidere come comportarsi con gli uomini che le hanno narcotizzate, violentate, picchiate e contagiate in alcuni casi. Ma hanno poco tempo, solo quarantotto ore per scegliere di andarsene e ricominciare da zero oppure restare e continuare a subire.
August Epp, l’unico uomo presente alla riunione, ha il compito di redigere i verbali, poiché le donne in quanto tali non sanno né leggere né scrivere. E nemmeno parlare correttamente. August infatti è un ex colono che capisce la lingua, il dialetto stretto che si usa a Molotschna ed è di conseguenza l’unico in grado di assolvere a tale compito. Nei verbali si leggono confronti serrati, scambi fulminei di battute ma si colgono anche attimi di lucidità sulla condizione di queste donne che scoprono che a stuprarle non sono stati demoni o sconosciuti bensì padri, fratelli e amici.
L’intera colonia di Molotschna è fondata sul patriarcato, dove le donne vivono una vita di serve mute, sottomesse e obbedienti. Bestie. Ragazzini di quattordici anni sono tenuti a impartirci ordini, a determinare i nostri destini, a votare le nostre scomuniche, a parlare ai funerali dei nostri nuovi nati mentre noi rimaniamo in silenzio, a interpretare la Bibbia per noi, a guidarci nel culto, a punirci! Non siamo membri, Mariche, siamo merce.
Quarantotto ore per valutare una vita in colonia e trasformare la rabbia e il desiderio di vendetta nel coraggio di scegliere la libertà. Quarantotto ore per alzare la voce e dire basta. Quarantotto ore per buttarsi nell’ignoto della vita.
A questa recensione seguirà l’intervista a Miriam Toews realizzata da Ombretta Romei, e la ripubblicazione della recensione di Un complicato atto d’amore, il primo romanzo della scrittrice canadese uscito in Italia, pubblicata su PULP Libri nel 2005.