“Il primo agosto del 1944, martedì, non c’era il sole, era umido, non faceva troppo caldo”: con queste parole ostentatamente semplici, che rivendicano la prospettiva umile e smarrita del testimone oculare, iniziano le Memorie dell’insurrezione di Varsavia, redatte a vent’anni dagli eventi dal poeta Miron Białoszewski (1922-1983) e pubblicate in patria, con una ricezione controversa, nel 1970.
L’insurrezione di Varsavia, occupata da cinque anni dall’esercito tedesco, iniziò per ordine del governo polacco in esilio a Londra nel momento in cui le truppe dell’Armata rossa si stavano avvicinando alla città: scopo dell’insurrezione era cacciare i tedeschi e impadronirsi della città in modo che l’Armata rossa vi trovasse un governo polacco già insediato. L’esito fu catastrofico: all’infuriare della battaglia i russi appostati sull’altra riva della Vistola decisero di non intervenire in soccorso degli insorti, così che i tedeschi poterono schiacciare l’insurrezione con bombardamenti e attacchi dell’artiglieria. Alla fine dell’insurrezione, che terminò con la resa degli insorti il 2 ottobre 1944, Varsavia era completamente distrutta, mentre sul fronte dei caduti si registravano 15.000 insorti e 200.000 civili uccisi.
La tragedia dell’insurrezione, ha scritto Czesław Miłosz ne La mente prigioniera in pagine improntate a una pacata, quasi classica solennità, “si svolse sino alla fine con la matematica esattezza delle leggi eterne. Era l’insurrezione di una mosca contro due giganti: uno dei due stava dall’altra parte del fiume e aspettava che l’altro schiacciasse la mosca”. Non c’era nessun motivo logico, prosegue Miłosz, per cui i russi sarebbero dovuti intervenire in aiuto di Varsavia, tanto più che la distruzione di Varsavia comportava la morte di coloro che avrebbero potuto creare i maggiori problemi ai futuri padroni del Paese, ovvero la gioventù intellettuale, temprata alla lotta clandestina contro i nazisti e ispirata da ideali patriottici. In favore di Varsavia avrebbe potuto giocare unicamente la pietà per il milione di persone che vi stavano morendo: “Ma la pietà è un sentimento superfluo là dove parla la Storia”, sentenzia amaramente Miłosz.
Nella Polonia socialista del dopoguerra la memoria dell’insurrezione fu a lungo censurata: la propaganda stalinista bollò gli insorti come “luridi giullari della reazione” e si dovette attendere il 1989 perché fosse eretto un monumento in memoria dei rivoltosi. Lo stesso testo di Białoszewski non fu accolto al momento della pubblicazione da ampio consenso: i critici letterari vicini alla politica ufficiale ne rifiutarono l’impronta decisamente impolitica, deplorando quella mancanza del “punto di vista partitico” che doveva connotare la letteratura socialista, mentre molti lettori restarono irritati dallo stile franto e colloquiale e dalle tonalità talora scanzonate e ironiche, volutamente distanti da ogni forma di retorica e magniloquenza. Come ricorda il curatore Luca Bernardini nell’illuminante postfazione, il memoriale “era stato dapprima recitato al magnetofono e poi successivamente trascritto dopo l’ascolto delle registrazioni da parte del poeta”: esso è connotato dunque in modo vistoso da una predilezione per il parlato e la narrazione orale. Lo stesso autore esplicita la radice orale di questi ricordi: “Per vent’anni non sono riuscito a scriverne. Anche se lo avrei tanto voluto. E allora chiacchieravo. Dell’insurrezione. […] E pensavo continuamente che questa insurrezione in un qualche modo la dovevo descrivere, ma proprio descrivere. E non sapevo che questo chiacchierare per vent’anni – perché ne chiacchiero da vent’anni – perché è l’avvenimento più importante della mia vita, così conchiuso – che proprio questo chiacchierare è l’unico modo per descrivere l’insurrezione” (pp. 54-55).
La prospettiva è quella di un civile (Białoszewski era all’epoca uno studente di polonistica estraneo ai movimenti della resistenza clandestina) che descrive il processo di distruzione che vede e sente attorno a sé con una prospettiva fortemente impressionistica, che chiama in causa tutti i sensi: “Questa realtà, miserandamente, fumiga: bisogna costantemente coprirsi gli occhi col colletto, o schermarseli con le mani, polvere, calcinaccini, grigio, rosso, secco e caldo nel naso, tra i denti e sulla lingua, e respirarselo, caldo, ti pizzica tutto, e sudare” (p. 102). Nutritosi agli sperimentalismi di Bruno Schulz e Witold Gombrowicz, persuaso della corrispondenza tra significato e suono predicata da Mallarmé e Majakovskij, Białoszewski indulge talora a uno stile quasi dadaista, reso in italiano dal traduttore con notevole maestria. Così descrive Białoszewski l’attesa di fronte ai gabinetti degli ospiti di un rifugio in cui trova riparo durante i due mesi dell’insurrezione: “I cessi erano sempre tutti occupati. Quindi bisognava aspettare il proprio turno. E si cianciava. Che importa che non ci fossero le porte, ma solo i cardini. Nessuno ci faceva caso. E mica ci si vergognava. […] Si cianciava. Con quelli a fianco. Chi aspettava. Chi faceva la cacca. Chi di già. Chi ancora no. Chi per compagnia. Chi così. Chi pipì. Chi passava di lì” (p. 100).
Gli ambienti di queste memorie sono appunto rifugi, cantine, fogne, in uno scenario sotterraneo e catacombale popolato di altarini improvvisati e in cui risuonano rosari e canti religiosi.
Il punto di vista fortemente legato ai sensi e individualistico da cui muove l’autore dà vita tuttavia a un’epopea collettiva in cui le vite di migliaia di persone si intrecciano in unico ordito di speranza e di morte: “che qualcuno di noi potesse morire per conto suo, mica lo pensavamo. Si pensava sempre che saremmo morti insieme” (p. 196). L’afflato corale emerge pure in alcune righe struggenti in cui l’autore descrive l’ingresso dei deportati nel campo di Pruszków dopo la repressione della rivolta: “Perché non riuscivo a togliermi dalla testa il giorno dei morti? Perché camminavamo come quando per il giorno dei morti si esce dal cimitero, in massa, tra figure di angeli che si stagliano biancastre (perché fa già buio) e le lapidi degli avi disposte in file” (p. 275). Dal campo di Pruszków l’autore passerà al campo di lavoro di Lammsdorf (Łambinowice) in Bassa Slesia, quindi a Opole: da lì scapperà col padre verso Częstochowa per fare quindi ritorno a Varsavia nel febbraio del 1945.
Anche nei mesi concitati della rivolta, l’atteggiamento del narratore non si limita al ruolo di mero testimone, ma si estende a operazioni di soccorso: estrarre, disseppellire, spegnere, erigere barricate.
Lo spettacolo di Varsavia in fiamme evoca più volte in Białoszewski il ricordo di altri due atroci eventi nella recente storia della capitale polacca martoriata: i bombardamenti su Varsavia del Primo settembre 1939 e la repressione della rivolta del ghetto ebraico scoppiata il 19 aprile 1943: “quella celebre, tarda e bella Pasqua del 1943. Gli ariani – ci chiamavano ancora così a quel tempo – nelle chiese coi vestiti della festa, e là l’inferno, noto a tutti, certo, ma senza speranza. E senza testimoni” (p. 92).
Testimone del tragico destino degli ebrei del ghetto fu il fotografo tedesco Julius (Joe) Heydecker (1916-1997) che nell’inverno 1941 scattò clandestinamente all’interno del ghetto di Varsavia un centinaio di fotografie a testimonianza delle condizioni miserevoli dei reclusi.
Heydecker, che era stato mobilitato nell’esercito all’inizio della Seconda guerra mondiale, fu assegnato all’inizio del 1941, in virtù dei suoi passati studi fotografici, a una compagnia di propaganda di stanza a Varsavia in qualità di assistente di laboratorio fotografico. Liberale di sentimenti antihitleriani, Heydecker aveva già soggiornato a lungo in Polonia nel 1937 e, specificamente, a Varsavia, al seguito della famiglia, la cui azienda si occupava di proiezioni cinematografiche. È quanto ci racconta Heydecker stesso nelle Note biografiche che precedono le fotografie e in cui racconta pure il destino avventuroso dei negativi di quelle fotografie proibite scattate nel ghetto: fu la prima moglie Marianne, arruolata nel servizio civile e attiva anch’essa a Varsavia, a sfidare le perquisizioni domiciliari della Gestapo e a conservare i negativi, portandoli poi via dalla Polonia. Solamente negli anni Sessanta, Heydecker, ormai emigrato in Brasile, trovò il tempo e il coraggio di scrivere un testo di accompagnamento alle fotografie e si mise alla ricerca di un editore, scontrandosi tuttavia con l’indifferenza del mercato editoriale tedesco.
Il volume uscì dunque tardivamente in Brasile nel 1981 con il titolo Where is Thy Brother, Abel?: una tempestiva e appassionata recensione di Heinrich Böll sul settimanale Die Zeit favorì l’edizione tedesca (1983) cui seguirono traduzioni in vari Paesi europei. Il volume ora proposto da Meltemi costituisce una nuova edizione rivista e ampliata del volume pubblicato nel 2000 da Giuntina sempre per le cure di Monica Di Barbora e Adolfo Mignemi che firmano ora un lungo saggio conclusivo, aggiornato al 2021, sulla memoria fotografica dello sterminio.
È intriso di indignazione morale lo scritto di Böll posto a mo’ di prefazione che stigmatizza la tardiva pubblicazione delle fotografie di Heydecker nella Repubblica Federale: all’interno dell’annosa questione circa i silenzi, la consapevolezza e la colpevole ignoranza dei tedeschi comuni sullo sterminio, queste fotografie, “scattate da un testimone oculare che non fu né carnefice né vittima”, costituiscono, asserisce Böll, prove di per sé sufficienti che “si” poteva sapere. E del resto, Heydecker, che fu a Varsavia a più riprese tra il 1941 e il 1944, conferma nelle pagine introduttive come lo sterminio degli ebrei nell’Europa orientale non poteva essere un segreto per nessun soldato della Wehrmacht: nella stessa Varsavia, centomila o forse anche più furono i militari e pure il personale civile tedesco che assistettero alle brutalità compiute dai soldati di guardia all’ingresso del ghetto tra il 1941 e il 1943, mentre nell’estate del 1942 presso l’Amministrazione civile del Governatorato di Varsavia si parlava apertamente delle gassazioni e della liquidazione degli ebrei ad Auschwitz e Treblinka. Quando Heydecker penetra nel ghetto per la prima volta nel gennaio 1941, animato dal desiderio di ritrovare una vecchia amica, il ghetto era un’istituzione recente, il cui muro di cinta non era stato ancora finito: le condizioni di vita degli abitanti, destinate a peggiorare rapidamente dopo l’inizio della campagna contro la Russia (giugno 1941), erano comunque miserande a causa del sovraffollamento, dell’alimentazione insufficiente e delle condizioni igieniche inadeguate che favorivano la diffusione del tifo. Le immagini scattate da Heydecker, mosso da «intento polemico» e da desiderio di testimonianza e denuncia, ritraggono scene di strada: uomini, donne e anche bambini avvoltolati in abiti laceri che sonnecchiano ai margini delle strade e gemono implorando un’offerta, passanti dallo sguardo impaurito, soldati della polizia ebraica che perquisiscono gli abitanti, carri trainati da cavalli che trasportano nel ghetto ebrei provenienti dalle campagne, uomini anziani dallo sguardo composto e dignitoso che si scoprono il capo dinanzi al fotografo tedesco, cittadini intenti allo scambio e al trasporto di merci, curiosi dinanzi a un banchetto di libri, cartelloni che annunciano rappresentazioni teatrali e persino un venditore di palloncini colorati che avanza fendendo la folla: “si librano [i palloncini] nell’aria, simbolo di tutte le eccezioni, su un mare di miseria e di disperazione” commenta dolente Heydecker a posteriori (p. 47).
L’ultima foto, scattata anni dopo, ovvero il 20 novembre 1944, ritrae le rovine del ghetto prima dell’ingresso a Varsavia delle truppe sovietiche: “il ghetto di una volta si stendeva vastissimo, una distesa di macerie avvolta nel silenzio, da cui qua e là emergeva un pilastro, una trave di ferro. […] Qui ho scattato le ultime foto su cui ho fissato la città morta di Varsavia” (p. 62). Le memorie di Heydecker si chiudono su questa immagine di silenzio e di desolazione e sulle parole profetiche pronunciate da un tenente che accompagnò Heydecker in quella visita spettrale: “Poveri noi, se tutto questo ricadrà su di noi!”.