Le madri hanno abitato il Novecento, il secolo a cui ha dato l’addio Aldo Nove nel precedente libro di versi nel 2014. Ma alle madri, alla madre, non si dà l’addio, continuando a parlarci, a conversare con parole di unione e separazione. Nelle ere geologiche talvolta si sta stretti, soltanto le vene materne offrono conforto, leggende, sogni, e semi da cui far scaturire le poesie che verranno. Sempre dopo la vita, però. Immersi in quell’azzurro che per alcuni decenni ha coinvolto e poi sconvolto l’esistenza di molti di noi. Il Novecento era tutto intorno, e Aldo Nove non moriva per niente – lo dice in poesia, da molto tempo, e continua a dirlo nei Poemetti della sera ora pubblicati.
Dai frammenti di poema del precedente libro alle composizioni odierne (ma scritte a partire dal 2015) il tempo da cosmico è diventato terrestre, l’infanzia ha trovato linguaggi alternativi e se li è presi con discreta energia, affidando alla poesia antidoti speciali, così come può pensarsi (la poesia) emblema discorde ai luoghi comuni. Per alcuni è così, per altri potremmo dire che non ci dispiace se si allontanano.
La madre in questa nuova opera è il segnalibro dovuto agli anni e alla profondità terrena di cui siamo imbevuti, da sempre circondati ma sempre insaziabili. La madre ascolta e quando risponde ne sentiamo soltanto l’eco, non c’è più. È il destino di chi sa con chi ha a che fare: i figli di tutto il mondo. Il figlio Aldo Nove, in primis, capace d’intraprendere il cammino dei poemetti dai versi brevi e brevissimi, dove le assonanze e i ritmi inseguono le tachicardie corporali. La fisica del linguaggio è la fisica cardiaca, per l’autore, nelle sue profondità ctonie e nelle aggregazioni che s’espandono da un poemetto all’altro, attraverso filamenti e connessioni fittissime, come soltanto un bosco senziente, pervasivo, potrebbe fare. Un vasto salmo, suggerisce la quarta di copertina, però laico fino a un certo punto se nell’indistinto la coscienza infine affiora con le sue primordiali colpe.
La notte, comune a tutti, ora trova quel che il silenzio del mondo incontra quando gli uomini decidono di contrastare trucchi e macerie a favore del linguaggio. In quel caso scempi librari e bellici risaltano nel paesaggio come frame rifiutati di Westworld. Non rari i casi, in Poemetti della sera, dove la decadenza viene sottratta alla melma e lanciata addosso agli incursori letterari. E dove la fine del mondo sta tutta dentro le menzogne dell’impero.
La disposizione verso la famiglia, nel folto degli affetti, rivela tutto il potenziale della memoria poetica, dove i riflessi non sono illusione, o equivoci, ma narrazioni espressive di corpi e menti passati sulla terra e ancora presenti come realtà o come ombre. È un bosco sempre raggiungibile questa scrittura, dove il divario fra scrittore e lettore si azzera per volontà e finalmente approvarsi l’un l’altro nella ricerca della luce. Di una verità. Anni fa stavamo attenti ai pericoli finali e incongrui “nel mistero che chiamiamo vita”, attraversando le opere successive siamo forse giunti al bordo di un “futuro cristallizzato”: oltre, nelle dediche della memoria, seguiremo Aldo Nove nella sua personale sequenza dei giorni. Suoi, e per riflesso, nostri.