In un’Europa in cui l’affermazione dei sovranismi sgretola i fondamenti dell’Unione a vantaggio delle pulsioni nazionaliste dei singoli stati, in cui viene legittimata la costruzione di nuovi muri e si moltiplicano i campi di confinamento per migranti e richiedenti asilo ai margini dello spazio continentale, ci fa bene leggere Guarire mondi in crisi di Melita Richter Malabotta. Un libro pubblicato a quattro anni di distanza dalla sua prematura scomparsa grazie alla cura amorevole di Marija Mitrović e Sanja Rojć che di Melita hanno raccolto alcuni saggi editi in differenti riviste e volumi collettanei tra il 1995 e il 2019.
Sono saggi vivissimi, che raggiungono momenti di grande efficacia argomentativa, perché le grandi questioni a cui Melita Richter si accosta sono sì affrontate attraverso la prospettiva teorica, la vastità delle letture e dei riferimenti culturali, ma sempre mediate dal suo vissuto personale e dal suo preciso posizionamento di donna e di femminista.
Nata a Zagabria nel 1947 in una famiglia colta e cosmopolita, Melita amava profondamente la sua città natale, la sua «patria piccola» e amava profondamente la Jugoslavia, sua «patria grande». In Lontano da dove, il saggio che apre il volume, dice di aver amato la Jugoslavia «in modo sconfinato, astratto, ideale». Questo sentimento non occultava le contraddizioni presenti nella società del tempo, ma esaltava ciò che di importante era stato realizzato: la fuoriuscita dai due blocchi politico-militari in cui il mondo si riconosceva. E soprattutto la fuoriuscita dal controllo del «grande fratello» sovietico che soffocava mezza Europa. «Noi – scriveva – avevamo scelto la terza via, e non fu poco. Avevamo il concetto di futuro […] Ci credevamo tanto. Studiavamo, lavoravamo, andavamo fieri nel mondo. Conoscevamo il mondo occidentale, parlavamo le sue lingue mentre esso sapeva poco o niente di noi. Spesso non sapeva individuarci neanche sulla carta geografica».
Mantenendo questo forte attaccamento al proprio paese, Melita Richter all’inizio degli anni Ottanta decise di lasciare Zagabria dove si era laureata in sociologia urbana e dove aveva iniziato un’intensa attività lavorativa e culturale. Si trasferì a Trieste per fondare lì la sua famiglia.
E proprio da Trieste assistette all’inizio delle guerre che portarono alla lenta dissoluzione della Jugoslavia. Il dolore lacerante da cui fu attraversata la spinse a intraprendere negli anni un serrato lavoro di studio, di pubblicazione di centinaia di articoli, saggi, interventi, a partecipare a convegni in Italia e in Europa, a stringere rapporti con i movimenti della società civile che nelle diverse regioni del suo ex paese resistevano alla guerra, a diventare un’infaticabile attivista per la pace.
Da esperta di sociologia urbana, da conoscitrice delle strutture e delle funzioni delle città, Melita Richter scrive pagine importanti sul tema dell’urbicidio durante le guerre nei Balcani. Ciò che la inquieta è la consapevolezza che negli anni dei conflitti ad essere rilevante non è stato lo scontro tra gli eserciti contrapposti, quanto il terrore e la morte disseminati tra la popolazione civile e soprattutto l’odio e l’accanimento sulle città. «Perché – si chiede – la distruzione di Vukovar, Mostar, l’attacco a Dubrovnik, a Osijek, Karlovac. Perché il terribile assedio di Sarajevo?»
Ritiene che l’odio e l’invidia di un mondo arretrato, rurale, si siano abbattuti sulle città soprattutto per «annientare lo spirito cosmopolita che le distingueva, la tolleranza, il metissage», la mescolanza di lingue e fedi religiose, l’idea di convivenza che vi era radicata.
Dal dolore per la perdita dello straordinario intreccio di etnie, culture e differenze delle città jugoslave ad opera di regimi nazionalisti che disegnavano nuove frontiere identitarie e statuali, scaturisce in Richter l’urgente riflessione sul superamento dei confini. Confini materiali e simbolici, oltrepassati, negli anni delle guerre, da una minoranza di oppositori, una minoranza preziosa, in cui rilevante era la presenza del pacifismo femminista, oppositori che non riconoscevano le nuove patrie, i muri e gli steccati etnici, l’omologazione del pensiero, l’annientamento dell’alterità.
Il tema delle città divise e umiliate percorre alcuni bellissimi scritti raccolti nella seconda sezione del volume, dove l’autrice riflette anche sugli accordi di pace di Dayton a vent’anni di distanza dalla loro sottoscrizione e dà conto dell’importante lavoro svolto dalle reti femministe dei Balcani per superare l’eredità della guerra e sfidare, con il Tribunale delle Donne di Sarajevo, l’ingiustizia strutturale che grava sull’esistenza femminile.
E sono pagine di grande sensibilità analitica quelle dedicate, nella parte conclusiva del libro, a Migrazione e scrittura femminile. Se «il confine si pone come violenza in ogni tessuto che attraversa», per Melita Richter diventa necessario spostarsi verso luoghi di passaggio, verso le soglie, i margini, le terre di mezzo, «dove la densità identitaria si fa più leggera», dove si creano spazi che «facilitano l’incontro, il contatto, la contaminazione», dove, per chi ha dovuto abbandonare la propria terra d’origine, si rende possibile la dimensione della creatività e della scrittura sulla difficile condizione dell’esilio.
Sullo sfondo rimane la sua personale esperienza di sconfinamento, o piuttosto di spostamento, come lei precisa, per sottolineare la differenza tra la piena libertà della sua scelta e quella obbligata, forzata, di chi invece deve migrare per necessità e bisogno.
Un’ultima notazione sul bel titolo scelto per il volume. Guarire mondi in crisi allude all’arte del risanare, del curare. Una cura da intendere non come servizio, abnegazione femminile, dono incondizionato di sé, ma come azione politica, finalizzata a riunire, cucire, suturare ciò che la guerra lacera, ciò che il pregiudizio e la discriminazione offendono nella convivenza umana.