Meglio star zitti? No.

Giovanni Raboni, Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema teatro, Mondadori, pp. 528, euro15,00 stampa, euro 7,99 epub

Raboni poeta, Raboni traduttore di Proust e Baudelaire. E Raboni autore di stroncature. Dunque gli scrittori del Novecento trovano nelle sue pagine qualcosa su cui meditare. Se almeno non fossero morti. Ma il gusto garbato, e sempre sottile, degli articoli attrezza concretamente l’ingegno del lettore, soprattutto di chi si trova in disaccordo. Apre i rubinetti del dubbio, del ripensamento, e di qualche gentile sfacciataggine da presentare ad amici e confidenti. Qui non si fanno nomi, in quarant’anni è ineluttabile che se ne raccolgano moltissimi, e che non bisogna sorprendersi se i più siano considerati, a torto o a ragione, grandi scrittori.

La ronzante sciocchezza del plauso a tutti i costi non trova spazio nel lavoro di Raboni quando provava a spiegare le sue ragioni, le sue condanne riguardanti il consumismo letterario. Lui non cercava la rissa, anche se questa “diverte”, diceva allegramente Manganelli, e “piace”. Di fronte all’appiattimento critico, ancora più strabocchevole negli anni successivi, il giudizio negativo e l’encomiabile segnalazione delle porcherie, evitando l’influenza del nome, non resta che l’argomento esatto del giudizio, evitando sfavillanti ma sbrigative sentenze.

In giornali, riviste e quotidiani, Raboni si occupa di tutto: poesia, narrativa, teatro, costume, e altro ancora, sguinzagliando con rapidità motivazioni etiche e considerazioni strutturali sull’oggetto preso in esame. Rasentando talvolta la satira, il motto di spirito, sa convincere quanto sia meglio non tacere la propria discordanza di fronte a un’opera mediocre benché universalmente osannata. Era capace di divertire, contrastando “l’aria che tira”, anno dopo anno sempre più maleodorante. I climi, il più delle volte, non erano adatti al respiro circospetto della lettura di Raboni, sempre libero da superficiali cautele. Ossessioni e psicologie fantastiche gli ritornavano indietro ogni qual volta tentava di definirne l’ipotizzata (da altri) qualità.

D’accordo o meno si sia con lui, certo non sfugge che ancora oggi la grande maggioranza di queste pagine contenga una chiarezza decisa e invidiabile. Dall’apprendistato nella rivista Aut aut di Enzo Paci agli articoli in giornali e settimanali di grande tiratura, lo sviluppo dell’attività pubblicistica è sempre più testimonianza di dissenso e notifica dei difetti di cui sono piene le nuove debolissime “vocazioni” letterarie. Non senza redigere costanti smascheramenti diretti a certi “intoccabili” del canone corrente. In lui riconsiderare un’opera, seguendo l’evoluzione vitale e epocale, è una costante imprescindibile. Per questo il credito in corso può avere l’attenzione di ripensamenti personali e collettivi.

L’interpretazione critica di Raboni, a ben vedere, segue da vicino il costante lavoro poetico, basti rileggersi la fenomenale raccolta A tanto caro sangue (1988): l’autore riprende i vecchi versi riversandoli in un libro tutto nuovo, dove prende campo un’accresciuta lucidità d’intenti e un “proustiano” compendio d’amore verbale e rilettura dell’esistenza. Il romanzo dei versi presuppone, con la sua costruzione a posteriori, un perenne movimento critico, oltre che dell’anima (come scriveva nel risvolto il compianto Marco Forti). La sprezzatura non è necessariamente distacco, ma la ripresa garbata – anche se spietata – di un discorso che si può seguire in tutti gli interventi che oggi qui rileggiamo. Critica e poesia in Raboni si sono sempre esposte, per nostra fortuna, senza farsi colonizzare da ideologie di seconda mano e soprattutto evitando la mezza voce d’altri.