“Il tempo sacro della traduzione”, scrive Tiziana Lo Porto nella nota posta al termine del romanzo di Megan Nolan, sfiora (e accarezza, aggiungo) l’elettricità pensante che viaggia nella testa altrui proiettando sullo schermo le immagini delle storie vissute. Ed è un obiettivo che orienta, costeggia pericoli e talvolta risulta trionfante. Al lettore giungono – se il compiuto risulta eccellente – frecce colorate, tripudi verbali, anche lussi che possono bastargli per qualche tempo dopo aver riposto il libro sullo scaffale.
Talvolta il volume sfugge ancora al legno della libreria, e si piazza su comodini e divani e tavoli da lavoro – impaziente attira l’attenzione con fremiti delle pagine. È così che la traduttrice entra nei giorni di chi legge dando vita a ipotesi fino a lì sfuggite o perse per strada: i viaggi degli scrittori, quando s’incrociano nelle diverse lingue, producono sentimenti d’ogni varietà e di varietà ancora inedite.
Nolan e Lo Porto oggi si sono snodate nei sentimenti, con i desideri e gli amori – con le vaste schiere delle parole per dirlo. Un esordio sfavillante per la prima, in piena ragione narrando episodi privati di vita sessuale violenta o appagante, in tutti gli anfratti dove l’amore s’incattivisce, si trasforma per violenze indotte da consensuale a non consensuale. La lingua di Nolan è presa a piene mani da Lo Porto con tutte le consapevolezze verbali del mondo (palesiamo Patti Smith, Bernardo Bertolucci, Eve Babitz…), rasentando i dopoguerra degli amori con gli ampi gesti e la signorilità che solo una donna può esporre con occhi ben puntati. Se il lettore (maschio) osasse sbrogliare i legacci che lo costringono ad ascoltare, ne subirebbe le conseguenze. Atti di sottomissione è un libro che schiaffeggia gli esserini posti dentro di noi, incapaci di sfrondare vanità e mondanità – qui il passaggio nelle diverse lingue non dà alcuna perdita all’efficacia “storica” di eventi, sofferenze e (talvolta) estasi.
L’autrice, dublinese, affonda nella Dublino scura di un tempo emotivo (ancora più buio di strade e passaggi) incapace di esentare dal dolore, ma dove l’attualità e la sconcertante abulia di un uomo imbalsamato nei propri “credo” produce danni e annullamenti atroci. Le undici parti del romanzo, segnate da date incontrovertibili, raccontano di una donna giovane che vuole apprendere e comprendere lanciando il proprio corpo nel nerissimo viluppo dell’infelicità maschile: e l’organismo del più amato ha un nome, sempre quello, ermetico e enigmatico, forse prototipo di un essere avverso a qualunque cosa. In una remota eppure puntuale zona, contraddizioni e opposizioni croniche da cui non scaturiscono alternative. E infine ci prendiamo tutto il peso delle parole che la giovane donna dice (scrive) su sé stessa: una vita piena della disperazione d’essere amata e scopata da un uomo al fine di zittire le brutte parti. Incapaci di accettare questa affermazione, quando sconfiggeremo la nostra complicità e correità maschile? In quale stagione, uomini, dobbiamo annegare la nostra tribale fallacia?