Medusa è una bellissima newsletter bisettimanale a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi, che da qualche anno ci parla di Antropocene da molti punti di vista – arte, scienza, narrativa – e di come si possa raccontare il cambiamento climatico evitando le trappole e i boomerang della comunicazione più pigra e remissiva. Medusa si rivolge a chi è interessato a capire il nostro posto nel mondo oggi, come specie e – nel tempo che è concesso – a mitigare la parabola della crisi ecologica. Diciamo subito che il libro, NON È un’antologia della newsletter ma piuttosto una riflessione che, autonomamente, mette ordine nel flusso di osservazioni e di note che il tempo della crisi ha scaturito e accumulato a un ritmo sempre più veloce. Scritto in parte sotto l’impulso della vicenda pandemica, esprime la priorità di condividere una prospettiva, anche provvisoria e a costo di rivedere alcuni giudizi.
Parlando di narrativa, il punto di partenza è ovviamente il fallimento – già individuato da Amitav Ghosh in La grande cecità – del romanzo moderno nel raccontare l’età dei combustibili fossili dal punto di vista della responsabilità umana; ma gli autori mettono in guardia, allo stesso tempo, dal rischio di estetizzazione della catastrofe oggi presente nella deriva più accreditata dell’immaginario. Così invece di canonizzare il new weird o l’ennesimo Cli-Fi invitano a rileggere le pagine di Volponi, Landolfi, Ortese. Invece di modellizzare con una raffica di dati o di inseguire con l’immaginazione il collasso prossimo futuro, Medusa ci porta nelle zone dove il disastro post-industriale è già storia, tra i resti di Crespi d’Adda o nella miniera di Ribolla raccontata da Luciano Bianciardi e Carlo Cassola.
Come specie, questo è il senso generale, siamo consapevoli dell’Antropocene da decenni, o per lo meno lo sono le nostre élite, da quando Roger Revelle e Hans Seuss osservavano in un testo del 1957 che “Gli esseri umani stanno conducendo un esperimento geofisico su larga scala […] in pochi secoli stiamo rimandando verso l’atmosfera e gli oceani il carbonio immagazzinato nel corso di centinaia di milioni di anni”. Angosce romantiche, evidenze scientifiche e Club di Roma non hanno scalfito la marcia della Grande Accelerazione e con essa del petrolio. Una civiltà giunta al suo culmine, e all’inizio della sua fine, non solo simbolicamente con l’11 Settembre, ma già intuibile nella devastazione della prima guerra dell’Iraq, catturata dallo sguardo non condiscendente di Herzog in Lessons of Darkness (Apocalisse nel deserto).
Votato al pessimismo della ragione, Medusa è anche un invito all’attivismo – di cui si fa esperienza in un capitolo del libro – e all’azione: “La società che con le sue regole e le sue follie è la schiuma dell’oceano illogicamente complesso che abbiamo chiamato Natura. […] All’essere umano che si è inventato le bombe e le feste di compleanno, tocca operare sul piano storico, agire nonostante tutto”.
Da un’angolatura diametralmente differente, Eric Hunting, futurologo interessato ai temi della sostenibilità e della tecnologia, approccia la narrativa della catastrofe a partire dalla visione estetica e funzionale del “dopo”, immaginando una civiltà post-collasso per necessità sostenibile, post-capitalista e solare. Hunting fa propria la prospettiva solarpunk, un genere di fantascienza letteraria nato come reazione al new normal distopico celebrato nei film di Hollywood e nei romanzi di derivazione post-cyberpunk. Calata sul terreno dell’architettura, delle energie alternative e del design post-industriale questa narrativa ha il difetto di suonare a volte come un Pnrr più figo ma ha indubbiamente il vantaggio di tagliare corto con l’ansia della Sesta Estinzione, invitando a visualizzare il futuro con un certo ottimismo.
Hunting descrive un futuro in tre fasi. La prima – più punk che solar – immediatamente successiva al crollo delle infrastrutture basate sul consumo di energia fossile e sulla cultura industriale (obsolescenza programmata dei prodotti, aerei, catene di negozi, mercato immobiliare, etc.) è guidata dalla filosofia dei maker e dallo hackeraggio dei materiali di recupero; i termini guida sono: decentramento delle risorse, stampa 3D, mobilità limitata, modularità spartana e tecno-artigianato di scala decrescente. La seconda è caratterizzata dall’emergere di una infrastruttura pubblica sempre più robusta e da un’ urbanizzazione sempre più massiva, entrambe abilitate da AI e robotica; la metropoli sostenibile è alimentata da un mix di energie rinnovabili, non escluso inizialmente il nucleare, sfruttando le zone tropicali nel frattempo diventate desertiche; terrazzamenti e boschi verticali punteggiano il paesaggio urbano, si affermano compatibilità, open-standards e architetture space frame nel design, nelle manifatture (robotizzate), nelle abitazioni comuni e nei trasporti (per lo più pubblici), nelle furnitecture multifunzionali a livello domestico. La terza fase è quella delle nanotecnologie, che riduce ulteriormente la distanza tra oggetti naturali e artificiali, e apre orizzonti impensabili negli stili di vita. Nel frattempo tutte le infrastrutture, digitali e non, compresa la mobilità fisica residua, sono diventati invisibili, o spariti sotto terra, grazie a robot scavatori; un treno ad alta velocità torna a collegare i continenti lungo il circolo polare artico, ormai sgombro dai ghiacci.