Georges Simenon / Mediterraneo ieri e oggi (forse)

Georges Simenon, Il Mediterraneo in barca, tr. Giuseppe Girimonti Greco e Maria Laura Vanorio, Adelphi, pp. 189, euro 16,00 stampa, euro 8,99 epub

Simenon autore di reportage, fra il 1931 e il 1946. Non a tutti è nota questa attività del prodigioso romanziere. Alcuni articoli di inviato speciale (molto sui generis, accertato che questo genere di scritti li investiva alla corte della sua curiosità) sono raccolti ora nel Mediterraneo in barca, apparsi per la prima volta sul settimanale Marianne nell’estate del 1934. Con l’aggiunta di alcune foto documentarie, scattate da Simenon assecondando la sua passione per la fotografia. Come spiega Matteo Codignola nella nota conclusiva, egli aveva sempre con sé la macchina ogni volta che usciva di casa, a maggior ragione se intraprendeva una crociera fra le isole disseminate nel Mediterraneo.

Mare nostrum e barca. Suggerisce qualcosa? Sono trascorsi 85 anni da quel periodo, eppure leggendo queste pagine ci si ritrova improvvisamente in qualcosa di graffiante e spericolato, per alcuni tratti perfino imbarazzante. Il fatto è che Simenon ha da ridire non soltanto sui venti che dalla Francia spesso ostacolano il lavorio velico della goletta su cui viaggia. Il primo approccio definisce il Mediterraneo come un bacino piccolissimo, dove ci si saluta quando ci s’incontra, come in una qualsiasi città di provincia. Nave, piroscafo, veliero e barchetta vengono subito riconosciute per provenienza e equipaggio. Che trasportino vivande o ferraglia, o bon vivant, gli uomini passando si salutano. E poi i porti sono pochi e qualcuno ha difficoltà a sbarcare, causa malattia, azioni sconvenienti o fuorilegge.

Per Simenon il Mediterraneo è… un elenco di fatti, cose e persone immediatamente affollato. Mercanti e equipaggi sordidi, “milioni di pesci stravaganti”, scambio di liquori con i macchinisti, pensieri (pochi, per la verità) rivolti al capo Mussolini, fermo posta e bordelli (quanto mai importanti per lui, questo lo sappiamo bene), l’onnipresente tendenza piratesca, personaggi pittoreschi, almeno uno per imbarcazione, il fascino vasto delle vele quadrate spalancate al vento, Genova a poche miglia e Genova lontanissima ritrovandosi la mattina dopo di nuovo all’isola di Porquerolles, o davanti al golfo di Napoli dopo essere giunti in vista di Scilla. Venti. Contrari. Politicamente e socialmente. Per dire: non è soltanto una digressione la questione dei rom cacciati dal paese e l’imperio “divieto di soggiorno per i nomadi”. Sindaci e poliziotti rispediscono la roulotte “da un posto all’altro come una pallina da ping-pong”. Né le barche a cui s’impedisce l’approdo per timore del contagio (ma a quei tempi il rischio sanitario era reale) sono messe a caso nei racconti che Simenon allestisce da par suo, con tanto di idiozie elevate al rango di “apprendistato” svolto, è il caso di dirlo, sul campo.

Simenon, veleggiando e veleggiando, si rende conto che, nell’Italia regimentata dal “condottiero” del Regno, nessuna nave può ormeggiare a suo piacimento, anche se, pur lamentandosi, trova sempre il modo di sorseggiare vini e liquori, trovando la simpatia di marinai che la sanno lunga, che accettano la penuria e l’abbondanza. Simenon vede la crisi, gli Americani vendono i loro yacht, gli italiani non ne parlano. Ma come i cammelli mangiano e bevono anche per quando non ce ne sarà, il popolo aspetta “le vacche grasse che tornano sempre”. Le storie raccontate da Simenon non mancano di arguzie maligne, ma sembrano sempre accomodarsi dove alla fine il vento non è poi così nemico, e il Mediterraneo in grado di tessere relazioni fra chi lo solca e le genti di terra. Spesso le avventure giornaliere sono “bibliche”, fra lotte parentali e costrizioni alimentari. Simenon scrive che l’Italia è occupata da una masnada di “cugini” e che questi emigrano verso famiglie accoglienti europee, in quartieri che richiamano le città d’origine. Prego verifica, scrive, a Parigi, in Grecia e a Londra… La serenità di quegli uomini e quelle donne, o quel che lui considera tale, non lo turba. L’occhio belga di Simenon, rinfrescato da mondanità e snobismo parigini, ha qualcosa dell’impassibilità del chirurgo: può certo scandalizzare, azzecca la visione generale ma manca di troppi dettagli perché lo si accetti appieno. Altre sono le minuzie, che possono rendere tragica una giornata, nella vita quotidiana di questo viaggiatore a cui interessa la cronaca prima ancora della poeticità, spesso stucchevole, del grand tour paesaggistico. Come amava dire, ha sempre colto “la differenza fra l’uomo nudo e l’uomo vestito”.

Probabile che Simenon si trovi più in agio una volta sbarcato, a Malta, sulle coste Nordafricane o a Istambul, dove può attardarsi a considerare le gesta di donne più o meno eleganti e “mondane”, e di personaggi più o meno regali di dubbia fama e di relativa pericolosità. Il suo sguardo sembra illuminarsi quando può descrivere le diversità esistenziali fra le donne arabe e le “cosiddette bianche”. Ma sono prostitute. Forse manca il tempo per conoscenze diverse. O l’interesse ulteriore per un’umanità di multiformi usanze, costumi, e costrizioni. In fondo Simenon vuole evitare il contagio, pur dando prova d’essere immune dai fasti e dalle miserie incontrati durante i suoi viaggi lungo le sponde del Mediterraneo. La sua scrittura non dissacra, fotografa al pari della macchina, restando fuori dalla retorica dell’epoca. È questa, probabilmente, la sua grandezza.