Non più approdare, ma lasciare Bologna. Se oggi fosse ancora vivo, e transitasse per la città emiliana, Remo Remotti[1] tuonerebbe, a suo modo: «Me ne andavo da Bologna» – e non: «Me ne andavo da Roma», come invece succede nella sua performance più famosa, Mamma Roma addio – sciorinando poi tutto un elenco anaforico di validissime ragioni per questa fuga, o anche auto-esilio, lontano dalla città felsinea. ‘Mamma Bologna’, infatti, sembra oggi tanto inospitale quanto la ‘mamma Roma’ che aveva lasciato Remotti per il suo viaggio in Perù di molti anni fa, e questo a causa, in primo luogo, della lacerazione sempre più manifesta tra il complesso (auto-)mitopoietico della ‘grassa’, ‘dotta’, ‘rossa’ Bologna e la crescente frammentazione, tangibile a tutti i livelli – economico, sociale, politico e culturale – della vita associata cittadina. In questa schizofrenia, non è nemmeno del tutto giustificato parlare di ‘declino della città, con la rischiosa vicinanza a quel ‘degrado’ che per molti anni è stato riprodotto e al tempo stesso deprecato in una città che, per dirne una, basa buona parte del proprio indotto sulla popolazione universitaria, ma che ne trova deplorevole le manifestazioni, specie notturne, troppo evidenti.
Si tratta di forti contraddizioni – a tratti, probabilmente, insanabili – che denotano una crisi ormai stabilizzata, cui si è unita, in tempi più recenti, la crisi pandemica. Tuttavia, come testimoniano le date di pubblicazione dei due testi qui presi in esame – la cui stesura risale così, con ogni probabilità, al periodo immediatamente precedente la primavera del 2020 -, i motivi per abbandonare, anziché tentare di approdare a Bologna erano già molti.
E nell’allontanarsi non si tratta più di dare sfogo a uno slancio affascinato, a una proiezione fuori dai confini geografici della città che, tuttavia, all’interno di quegli stessi confini aveva trovato spunto per la creazione del proprio immaginario, come accadeva nel grido finale di “Autobahn” (da Altri Libertini di Tondelli, ormai di più di quarant’anni fa) che portava dal cuore dell’Emilia verso il Nord: «forza tutti insieme incontro all’avventuraaaaa!». Lo sguardo si è fatto più lucido e disincantato, alla stregua di quello di uno studente universitario fuorisede che ha terminato i propri studi – con il conseguimento del titolo o meno – e cerca di continuare la propria vita altrove.
È questo, del resto, lo sguardo di Livio, il narratore de La grande stagione di Paolo Ruggiero (Castelvecchi, 2020), romanzo nel quale, secondo Renato Barilli, «[c]’e n’è quasi da ricavare una guida per appetiti solidi e nello stesso tempo non sostenuti da adeguate risorse economiche». Gli appetiti in questione riguardano, in primo luogo, la vita sessuale di Livio, vero fulcro della ‘grande stagione’ evocata dal titolo: il romanzo ce la mostra a più riprese, in una scarna narrazione dal gusto milleriano, quando non boccaccesco, talora fin troppo evidente. E ce la mostra fino alla sua conclusione, che arriva poco dopo la fine degli studi universitari, quando, tra i primi lavori e la perdita progressiva di quell’energia investita nella ricerca di partner sessuali, si delinea l’attraversamento di una linea d’ombra ben poco metafisica, e anzi molto concreta, verso le più grandi voragini e più grandi ricomposizioni della cosiddetta – ormai non più verificabile – ‘età adulta’.
Emerge, in altre parole, un punto di rottura che non riguarda soltanto la ‘grande stagione’ di Livio, ma più in generale la relazione con la città di Bologna, incapace di trattenere a lungo i propri ‘ospiti’, mai divenuti del tutto ‘bolognesi’, non potendo offrire loro né un adeguato riconoscimento socio-economico per la loro carriera universitaria né un surplus di fascinazione erotica – anche quando non sia giocata su un piano strettamente sessuale – oltre la fine della ‘grande stagione’ di ciascuno.
Maschile non casuale, in questo caso, perché la narrazione di Livio – sulla quale Barilli sembra esagerare un poco, quando ricorre alle abusate categorie dell’autofiction (mentre ne coglie giustamente la profonda ‘bolognesità’, pur se, o proprio perché, extra muros) – offre un punto di vista che, nella maggior parte dei casi resta graniticamente conforme a quello di un individuo maschio giovane etero e cisgender. Più raramente, ci si imbatte nell’intervento convenzionalmente ‘salvifico’, ma talvolta anche dialettico, di alcuni personaggi femminili che, però, restano tutto sommato secondari.
Lontano, in ogni caso, da qualsiasi polemica identitaria, quest’appunto serve più che altro a sottolineare come narrazioni diverse ed esiti diversi, rispetto al caso di Ruggiero, come anche di Bitetto, potrebbero venire da prospettive, o anche solo focalizzazioni, che procedano da posizionalità diverse; narrazioni ed esiti che, per quanto è di mia conoscenza, mancano, negli ultimi anni, all’appello.
E non che il granito non si sgretoli, in chiusura di romanzo, ma questo coincide, innanzitutto, con l’inizio della fine, per la ‘grande stagione’, e apre a sguardi che sono tanto di scavo introspettivo quanto di tendenza nichilista; esemplare, a questo proposito, risulta la lettura di Cioran, intorno a cui ruota questo scarno, ma assai convincente paragrafo: «La letteratura deve resistere, mi dico estraendo di nuovo Squartamento, leggendo qualche frase a caso, una più affilata dell’altra. Annuso le pagine. È ora di scaldarsi qualcosa da mangiare». Livio si trasferisce, infine, a Parigi, punto di fuga dal quale gli anni della formazione, in Friuli, e la ‘grande stagione’ bolognese potranno poi essere riconsiderati con più lucidità, in analogia con quello che farà lo stesso Miller, nella Ville Lumière, e racconterà nei Giorni tranquilli a Clichy (1956).
Tende, almeno parzialmente, verso un simile orizzonte nichilista anche la narrazione di Scavare (Italo Svevo, 2019), esordio di Giovanni Bitetto che, come ravvisava giustamente Orazio Labbate sulle pagine della Lettura, ha forse nel Thomas Bernhard del Soccombente e di Estinzione il proprio nume tutelare (talvolta evocato con un paradossale eccesso manieristico, nell’asciuttezza dello stile).
Costruito su un’apparente dialogo, che in realtà è soprattutto monologo e invettiva, Scavare racconta l’amicizia, intrisa di antagonismo, se non anche di rivalità, tra un filosofo marxista capace di fare carriera accademica e uno scrittore dalle posizioni politiche più disincantate. Bologna si rivela scena perfetta per questo duello, che è anche scambio delle parti, all’interno di un’amara conflittualità che il panorama culturale e accademico della città non fa che esacerbare. Non nel senso della polemica minuta, aneddotica e in fin dei conti probabilmente inutile, bensì della consapevolezza della teatralità del conflitto, dei ruoli attoriali che esso obbliga ad assumere: come si legge in un intermezzo della narrazione, «(Cara Bologna – che ancora una volta sei teatro della nostra simbiotica messa in scena, l’ultima possibile -, ti devo ringraziare, sei la città che mi ha imposto la maschera definitiva)».
Bologna si conferma come luogo dell’attraversamento della linea d’ombra, rispetto alla provincia forse pugliese dalla quale provengono i due personaggi, con un dettaglio che potrebbe rinviare anche in questo caso a un marcato autobiografismo da parte dell’autore, nato ad Andria nel 1992 e poi stabilitosi per anni a Bologna. Anche qui, però, non interessa tanto il fatto che vi sia o meno una narrazione autobiografica, all’interno del romanzo, quanto la sua gelida, e potente, critica a una città che ha portato l’eros della conoscenza al centro del proprio complesso mitopoietico per poi tradirlo costantemente, e questo ancora prima, per dirne una, che la didattica a distanza – in ambito tanto scolastico quanto universitario – certificasse in modo generalizzato, e non solo localizzato, questa realtà.
Del resto, Scavare si gioca tutto su una scena che, segnata anche qui dalla scomparsa luttuosa di uno dei due personaggi, gradualmente svanisce nel nulla, fino a gettare dubbi sul fatto che sia «andata veramente così». Tra le righe, si può leggere, forse, come anche Bologna resti evanescente, in fuga da sé stessa tanto quanto i personaggi che transitano per la città.
Oggi, dunque, raccontare Bologna è abbandonare Bologna, sempre di più, e secondo un abbandono che appare senz’appello, se non forse – in attesa di narrazioni divergenti – nella possibilità di ricordare che ‘anche Bologna sta abbandonando Bologna’, mascherando con le polemiche sul ‘degrado’ la propria condizione di profonda crisi culturale, sociale e politica.
[1] A sei anni dalla scomparsa, Remo Remotti è recentemente tornato a fare capolino in libreria grazie alla graphic novel firmata da Davide Toffolo, a partire dalle “storie vissute, scritte e sognate” dal poeta romano, e intitolata L’ultimo vecchio sulla Terra (Rizzoli Lizard, 2021).