“D. Che pensate di Kant?
R. Vi è più saggezza nella nudità della donna che nell’insegnamento del filosofo.
D. Minerva?
R. Mi snerva.”
(Max Ernst)
“Con il romanzo, com’è noto, i surrealisti non ebbero fortuna”, sentenziano le note redazionali di copertina che accompagnano il volume delle opere grafico-narrative composte da Max Ernst (1891-1976) fra il 1929 e il 1934. L’affermazione è quantomeno discutibile. Come potremmo valutare altrimenti opere come Nadja (1928) o L’Amour Fou (1937) di André Breton – geniali traslazioni narrative con interpolazioni di immagini per lo più fotografiche dei Manifesti surrealisti – oppure, meno celeberrima, Nel castello di Argol (1938) di Julien Gracq, o addirittura (lasciando Parigi e la Francia per Praga) Valeria o la settimana delle meraviglie (1936) del boemo Vitezslav Nezval: classici surrealisti nel campo del gotico il primo e dell’erotismo il secondo (spunto, quest’ultimo, per il film omonimo del 1970, capolavoro visionario diretto da Jaromil Jireš, e divenuto da noi Fantasie di una tredicenne, falcidiato dalla censura internazionale per il nudo integrale frontale, peraltro assolutamente casto, della bellissima adolescente Jaroslava Schallerová). Certo niente a che vedere con il romanzo tradizionale, questo è vero: le trance saggistico-narrative-fotografiche di Breton o le derive gotiche ed erotiche degli altri restano romanzi assolutamente sui generis, ma indiscutibili, per quanto rivoluzionari, sperimentali, avanguardistici.
Identico discorso per queste opere di Ernst. Romanzi per immagini e didascalie, dalla narratività frammentata, enigmatica e delirante ma comunque inequivocabilmente narrativi: i titoli sono tutto un programma: La donna 100 teste (1929), Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo (1930), Una settimana di bontà o i Sette Elementi capitali (1934). Romanzi quindi senza se e senza ma, i cui elementi capitali, sono sempre gli stessi: il nero, il gotico, l’humor e l’eros più sfrenato, in una staffetta continua tra De Sade e Freud.
Se la tecnica del collage è divenuta un’arte, il merito è soprattutto di Ernst e di questi straordinari romanzi. La valigia dell’artista in quegli anni è piena di ritagli: illustrazioni di Dorè, figure tratte da giornali popolari, enciclopedie mediche e feuilleton ottocenteschi, immagini di passioni e di morti, di torture e di amori, di ghigliottine e di fanciulle discinte. Max lavora con forbice e colla su un immaginario infernale, fantasmagorico e crudele: ha l’animo devastato. La sua patria, la Germania, che aveva lasciato nel 1922 per Parigi dopo la militanza giovanile nel movimento Dada a Colonia, era ormai in mano a Hitler e ai nazisti che, oltretutto, avevano perseguitato l’arte degenerata delle avanguardie e la sua in particolare. Il clima di incombente orrore che promana da questi collages in forma di romanzo è perfettamente giustificato dunque. Dapprima l’artista ricorre a più particolari ritagliati da diverse illustrazioni per comporre una nuova scena inedita; affinata la tecnica in seguito, preferisce enucleare un’immagine di base e su di essa incollare poche aggiunte che modificano e stravolgono la situazione lasciandone però intatta l’atmosfera sensazionalistica, popolaresca e narrativa. Collage di immagini, concetti e parole che raggiunge il culmine dell’humour noir nei sette giorni della Settimana di bontà, in cui scorrono – dalla domenica al sabato successivo – i sette elementi capitali in buona parte inediti (come la melma e il sangue) rispetto alla tradizione esoterica – elementi naturali e contemporaneamente peccati capitali – rinnovando il loro potere simbolico, tragico e insieme comico.
Come rileva il curatore Giuseppe Montesano nella sua acuta postfazione, “Max Ernst provò a cambiare le regole del raccontare, strappò come un bambino che gioca le pagine dei vecchi libri e le rimise insieme in libri perversamente nuovi, in racconti condensati e fatti per immagini fratturate e ricomposte in narrazioni per immagini che erano in qualche modo ancora o di nuovo romanzi […] Quello che si scatena nei romanzi-collage di Max Ernst è un attacco senza precedenti alla logica naturale nella quale il discorso si compone in racconto”. E in modo analogo si espresse lo stesso Ernst: “L’irrazionale. La magistrale irruzione dell’irrazionale in tutti i campi dell’arte, della poesia e della scienza, nella moda, nella vita privata degli individui e in quella pubblica dei popoli. Chi dice collage, dice irrazionale. Il collage si è subdolamente introdotto negli oggetti di tutti i giorni. Abbiamo applaudito alla sua comparsa nei film surrealisti (penso a L’Age d’or di Buñuel e Dalì: la vacca nel letto, il vescovo e la giraffa scaraventati dalla finestra, il carretto che attraversa la sala del governatore, il ministro degli Interni appiccicato al soffitto dopo il suicidio, ecc.). Mettendo di seguito, casualmente, diversi collages, fummo sorpresi dalla chiarezza dell’azione irrazionale che ne risultava: La donna 100 teste, il Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo, la Settimana di bontà”.
Il collage è dunque un procedimento terroristico che partecipa della dittatura dello spirito e, nel contempo, il segno di una pratica materialista, prodotto sociale composto di materiali perpetuamente riciclabili. Che sia frutto di sperimentazione, come era stato per Dada o esprima una volontà rettificatrice come per i surrealisti, la sua funzione è critica – demistificando l’attaccamento reverenziale all’opera d’arte, introducendo l’arbitrario, il discontinuo, il caso, l’humor, il détournement dei valori consacrati – e dialettica, in quanto frutto di necessità poetica e insieme processo casuale, integrazione del reale nel testo come riflesso traslato del reale. Il collage di Ernst invita dunque alla riappropriazione collettiva della cultura e alla sua permanente trasformazione: in altre parole mette in pratica l’aforisma di uno degli ispiratori e patriarchi del surrealismo, Isidore Ducasse Conte di Lautréamont, “La poesia deve essere fatta da tutti. Non da uno solo”.