Nelle 204 pagine del libro di Maurizio Porro un lunghissimo piano-sequenza eccita gli ardori dello spettatore accomodato sulla sedia (legno, poltrona o poltronissima) in platea, nel grande buio dove scaturisce la lama fumosa che proietta là in fondo sul gran telone dello schermo quel che vorremmo dalla vita, e la vita stessa: 24 fotogrammi al secondo inventano qualcosa che strugge, emoziona, diverte e dà ragione dell’esistenza. Almeno a quella dello spettatore, per la durata canonica di un film. 204 pagine (più un centinaio dedicate agli ospiti e ai luoghi) senza stacchi o pause in cui dalla rivista all’avanspettacolo e da quest’ultimo al melodramma operistico vengono richiamati a raccolta, nelle strade di Cinecittà e Hollywood e nei teatri di posa, la folla di cineasti, produttori, sceneggiatori, attori, maestranze che hanno alimentato nel Novecento l’allestimento emozionale dei nostri cervelli. Porro distende i propri equilibrismi proustiani, in compagnia prima di tutto di Federico Fellini, non chiudendo gli occhi nemmeno per un secondo davanti a 8½ e forse sperando che in un fantomatico al di là esista una Dolce vita 2.
Ma non basta, l’intreccio s’infittisce quando appare Ingmar Bergman e Il posto delle fragole alimenta la parte bella del nostro inconscio (con buona pace di Freud). Quando la lista lunghissima delle attrici fa esplodere il logorio quotidiano. Monica Vitti e Claudia Cardinale s’intuiscono vivere dietro il telone bianco, e Audrey Hepburn piace anche più di Marilyn (almeno qui da noi) per via delle scorribande romane in Vespa, complice Gregory Peck. Qualcosa vibra, financo traballa, quando appare sullo sferragliante Pont de Bir-Hakeim parigino un Marlon Brando in compagnia di Francis Bacon pittore (vedi i titoli di testa di Ultimo tango a Parigi) con l’apparizione inaspettata della luminosa Maria Schneider. Il film amato da Porro e mai amato dagli snob, “scaricato come fosse Emmanuelle”. Bernardo Bertolucci, sornione e geniale, intanto se ne andava a filmare una campagna parmense “diventata Hollywood”.
L’autore ricorda, e noi con lui, quando la sera nelle sale cinematografiche la proiezione si interrompeva per trasmettere le puntate di Lascia o raddoppia su televisori cubici di cui solo le prime file potevano usufruire per ovvi motivi ottici. I film erano spezzati in due (più raramente in tre) tempi (dando spazio nell’intervallo per discese ai gabinetti, e occhiate ai vicini, non certo per accendersi sigarette che allora nessuno si sognava di mettere al bando), e al termine appariva sempre la parola “The end” o “Fine”, oggi in disuso. Ma non solo di questo ci si appassiona in Io li conoscevo bene: gli attori di prosa conquistano per bravura e charme le numerosissime sale presenti nei centri cittadini (Milano, Roma, anche Genova) in un andirivieni di pièce e film che probabilmente solo oltreoceano (Broadway) aveva tale riscontro: Strehler, De Lullo, Guarnieri, Valli, Cortese s’incrociano con Mastroianni, Gassmann, Sordi e i divi del teatro leggero (la rivista), dalla soubrette Pampanini a Walter Chiari, da Delia Scala alla ditta Garinei e Giovannini.
Intanto ci si sorprende e ci si annoia, a seconda dell’occhio che guarda, per Visconti e Antonioni, Godard e Resnais: in Rocco e i suoi fratelli la macchina da presa accarezza i volti di Delon e Girardot, in À bout de souffle Jean Seberg viaggia sugli Champs-Élysées inseguita dal regista libero di carrelli ma carico di improvvisazioni, in L’eclisse la vera eclisse irrompe nella scena metafisica e geometrica (la torre, serbatoio idrico all’EUR) del film che si conclude (memorabile “punto di non ritorno” filmico) nel silenzio totale, in L’anno scorso a Marienbad il viaggio della memoria è strenuamente ossessivo. Porro storicizza quanto ha vissuto in prima persona, senza perdere di vista la concretezza verbale e al contempo il calore e il sentimento dove trovano posto uno accanto all’altra Catherine Spaak e Anna Proclemer, Woody Allen e Albert Hitchcock, ma attenzione non di sola Recherche sono intessute queste pagine: Proust giunge anche ai nostri giorni, vi si citano Covid, Blade Runner, 2001: Odissea nello spazio, Mission Impossible, Incontri ravvicinati, perfino Triangles of Sadness e Tár, e la passerella potrebbe continuare senza confini come sulla superficie di una sfera. È il piano-sequenza tradotto sulla pagina che incanta coloro che hanno vissuto i tempi delle sale di prima visione, con tanto di mascherina armata di pila per guidare verso i posti a sedere, e coloro che si ritrovano i Cinemascope compressi su monitor casalinghi e smartphone. A ogni generazione il suo, in questa sicuramente il peggio.