“A questo punto, signori principi e uomini di Stato, voi nella vostra saggezza, avete portato la vecchia Europa. E se non vi rimane altro che cominciare l’ultima grande danza di guerra, per noi va bene. Può darsi che la guerra momentaneamente ci spinga indietro, che ci strappi qualche posizione già conquistata. Ma se voi avete scatenato quelle forze che non siete più capaci di incatenare di nuovo, sia pure così: alla fine della tragedia, rovinati sarete voi, e la vittoria del proletariato sarà già raggiunta o, comunque, inevitabile” F. Engels [1].
Lo stesso ottimismo che Maurizio Lazzarato profonde nel suo ultimo saggio, Guerra o rivoluzione, edito da DeriveApprodi. Titolo tranchant che pone un’alternativa secca al lettore. Se poi per caso gli venisse in mente una pace possibile tra i due corni del dilemma, c’è il sottotitolo – Perché la pace non è un’alternativa – a chiarirgli che tertium non datur. Anche per Lazzarato, come a suo tempo per Engels e ancor prima per Hegel[2], la storia dell’Europa (e del mondo) non contempla la pace.
E infatti alla guerra noi siamo abituati da tempo perché è da trent’anni e passa che il mondo che abitiamo è in stato di guerra permanente e averla oggi a quattro passi da casa ce l’ha resa ancor più familiare. Evidentemente non ci erano bastate le guerre di successione jugoslave all’indomani dell’unificazione della Germania. Questa volta – e forse più di allora – sentiamo che ci riguarda da vicino, che ci stiamo impegolando in una situazione maledettamente complicata e più grossa di noi. Vorremmo starne fuori temendo il peggio. Magari tornando a sognare una Pax Europea, di fatto impossibile dopo la lunga tregua della guerra fredda. E allora?
La risposta di Lazzarato è un tuffo nel passato, un ritorno al Lenin del ’16-’17 impegnato a spiegare ai suoi accoliti raccolti a Zimmerwald attorno alla parola d’ordine di trasformare la guerra imperialista in guerra civile, la natura della guerra allora in corso e i motivi della capitolazione delle leadership dei partiti della II Internazionale. Giusto, diceva, lottare per chiudere quanto prima con la guerra. Il problema è il come. La pace? Senza una rivoluzione che la imponga, resta “un’utopia piccolo borghese”[3]. Lenin scrive L’imperialismo fase suprema del capitalismo nella primavera del ’16 a Zurigo, a due anni dallo scoppio della guerra e lo pubblica in Russia esattamente l’anno dopo, a pochi mesi dall’Ottobre. L’intento era quello di dimostrare il carattere imperialista della guerra in corso: “di usurpazione, di rapina, di brigantaggio da ambo le parti, […] una guerra per la spartizione del mondo, per una suddivisione e nuova ripartizione delle colonie, delle «sfere di influenza» del capitale finanziario, e via dicendo”[4]. Ma anche che si era entrati nell’epoca della rivoluzione proletaria mondiale.
Da quel mondo, sostiene Lazzarato, non siamo più usciti perché se il capitalismo non è quello della belle époque, pure continua a essere imperialismo. Non solo capitalismo e imperialismo sono indisgiungibili ma ancora oggi procederebbero assieme secondo la stessa logica. Prima “le guerre di conquista e di assoggettamento, la guerra civile e la guerra tra Stati”[5], poi tutto il resto, vale a dire la produzione e il lavoro.
È questo primato della guerra che conta nel ragionamento di Lazzarato, il che spiega l’assenza di curiosità per le nuove questioni nel frattempo insorte nella teoria e nel dibattito sull’imperialismo[6]. La rotta seguita evidentemente non ha avuto bisogno di aggiustamenti, è rimasta quella di Lenin.
Ma la rivoluzione? Siamo ancora dentro l’epoca della rivoluzione proletaria? Lazzarato ne è convinto, solo che se ne parla poco, dice, o non se ne parla più da tempo. Non ne parlano i movimenti femministi più interessati ai temi della violenza di genere, non ne parlano i movimenti ecologisti alle prese con la catastrofe climatica e ambientale, non ne parla il movimento operaio ormai irrimediabilmente compromesso con la “macchina Stato-capitale”[7]. Preoccupati della sorte del proprio particolare, tutti costoro avrebbero perso di vista il tema della rivoluzione e, ovviamente, quello della guerra che col capitalismo è pappa e ciccia[8]. Solo un problema di miopia politica, dunque. L’idea che quell’epoca sia tramontata, e da tempo ormai, non lo sfiora neanche, e neppure l’idea che siamo entrati nell’epoca dei tumulti e delle rivolte.
Sì, tumulto versus rivoluzione. Sul tema Lenin era figlio del suo tempo per nulla tenero nei confronti delle rivolte e delle sollevazioni popolari. Certo, chiosando la dialettica all’opera nella Logica di Hegel, sparava a zero sull’ortodossia del materialismo storico e ce l’aveva a morte con “la gradualità senza salti” di Kautsky e Plechanov, purtuttavia per spronare il ronzino della storia con quel «salti» reiterato per ben quattro volte[9], pensava alla rivoluzione non alla jacquerie. Ma tutto questo non è un problema per Lazzarato.
Abbiamo alle spalle, dice, la sconfitta della classe operaia che si è trascinata dietro la scomparsa delle classi e l’eclissi della lotta di classe. Cinquant’anni di pacificazione che hanno garantito al nemico di fare il bello e il cattivo tempo, ad libitum. Bene, non sarebbe ora di riconoscere questo nemico, fissarlo finalmente negli occhi magari con un pizzico di odio nello sguardo? Rieccoci dunque a Lenin. Il suggerimento gli viene da Schmitt, il giurista tedesco in odore di nazismo che a Lazzarato piace – lo definisce il Lenin della controrivoluzione – perché riconosce al rivoluzionario russo il merito di essersi inventato la guerra di classe contro la guerra statale e nazionale. In più, ma questo lo aggiungiamo noi, che “la sua superiorità su tutti gli altri socialisti e marxisti deriva proprio dall’aver preso sul serio il concetto di inimicizia totale. Il suo nemico assoluto, vero, era l’avversario di classe, il borghese, il capitalista occidentale e il di lui ordine sociale in ogni paese ove esso fosse al potere”[10]. Sapere chi era il proprio nemico, ecco per Schmitt il segreto dell’eccezionale forza d’urto di Lenin.
Lazzarato vede il nemico nella «macchina Stato-capitale» la cui ragion d’essere è la guerra: tra Stati, di classe, di razza, di sesso. Più che assimilabile al concetto di capitalismo monopolistico di stato, oggetto di un acceso dibattito a sinistra negli anni ’60 e ’70[11], la «macchina Stato-capitale» parrebbe piuttosto una combinazione di Behemoth e Leviatan. Ma non si tratterebbe di una novità degli ultimi tempi essendo un prodotto della prima vera guerra totale, quella del ’14-’18. Da allora il legame creatosi tra guerra, monopoli e Stato non sarà più sciolto. L’imperialismo di Lenin a Lazzarato parla di tutto questo e infatti i fondamenti della “macchina bicefala”[12] è lì che il Nostro li trova.
Come si diceva, questo motivo della guerra è da subito assolutizzato fino ad assumere un forte sapore eracliteo. Veramente la guerra ai suoi occhi è padre di tutte le cose e su tutte le cose signoreggia fino a decidere della nostra sorte facendo esistere gli uni come schiavi, gli altri come liberi[13]. Lazzarato legge Clausewitz dentro questa tradizione di pensiero e anche Lenin, Trockij, Mao e Giap che ne avrebbero innovato l’insegnamento contrapponendo alla guerra degli Stati di Clausewitz quella civile degli operai e dei contadini. Anche se la rivoluzione nel frattempo è stata sconfitta e la «macchina Stato-capitale» ha vinto, la loro lezione resta valida anche per l’oggi. “Viviamo sous l’oeil des Russes” aveva detto Schmitt[14], continuiamo a vivere sous l’oeil des Russes, gli fa eco Lazzarato.
Evidentemente il Novecento, che aveva avuto inizio con la Grande guerra, non si è concluso nell’ ’89 con la caduta del Muro come annunciato da Hobsbawm. Continua a protrarsi nel nuovo millennio sotto la tirannia della guerra imperialista e non avrà termine finché la violenza armata non cambierà di segno.
Una lezione che i nostri filosofi non avrebbero inteso. Foucault, ad esempio. Era partito col piede giusto pensando alla guerra come a “un modello per la comprensione dei rapporti sociali” [15], poi, a metà degli anni ’70, la virata verso altri lidi: la biopolitica e la governamentalità. Un “voltafaccia” [16], anzi no, un tradimento ché la virata coincide con il primo scalpitare della macchina Stato-capitale. Tirato i remi in barca, nella manciata di anni che ancora gli restavano, Foucault avrebbe lavorato a una filosofia della pacificazione, in perfetta sintonia col nuovo potere neoliberista occupato a depotenziare le soggettività ribelli del primo e del terzo mondo. Più che combattere questa strategia, la sua nuova idea di potere e di governamentalità l’avrebbe assecondata[17]. A quali testi di Foucault fa riferimento? Domanda legittima perché non si capisce bene da dove sono state tratte le citazioni a supporto della sua tesi. Mancano le note. La cosa certa è che non gli va giù l’idea che il potere “non è semplicemente una dominazione di tipo guerresco”[18]. Da qui l’inutilità stessa della domanda, per Foucault cruciale, sul «come» del potere, vale a dire in che modo si esercita. Inutile perché della macchina Stato-capitale è già stato detto tutto. È questa fedeltà all’impianto leninista a impedirgli di cogliere quanto di più accattivante per un marxista c’è nell’analisi foucaultiana del potere: il tema della resistenza e della produzione di soggettività. Sulla resistenza Lazzarato gli preferisce Fanon, icona dell’antimperialismo e dell’anticolonialismo[19]. La resistenza è riconosciuta solo se promossa e organizzata da un partito rivoluzionario, garante esclusivo della “mutazione soggettiva […] rompendo il tempo dell’assoggettamento individuale, delle pratiche unicamente difensive, facendo migrare la paura nel campo avverso”[20]. Siamo nell’epoca della rivolta ma Lazzarato non vuol saperne.
Nella foto di gruppo senza signora Foucault occupa il primo piano. Di fianco, le due coppie Deleuze-Guattari e Negri-Hardt, colpevoli di avere “decretato il superamento dell’imperialismo”[21]. Qui la critica, meno confusa quella a Impero, decisamente affrettata quella a Mille piani, si misura direttamente con la guerra in Ucraina, cartina di tornasole delle sue tesi. Sarebbe questa guerra a mostrarci come veramente funziona il mondo, chi sono gli attori che ne decidono le sorti, come si “struttura da sempre [corsivo nostro] la globalizzazione”[22], il tipo di intreccio tra Stato, guerra e capitale, etc. etc. Sorvolo velocemente perché la sua diagnosi è la medesima che Limes ci propina da nove mesi e Sinistrainrete un giorno sì e l’altro pure: una guerra fra blocchi imperialistici in cui il malcapitato di turno si difende, contrattacca col suo esercito ma la resistenza della sua gente non esiste. Alla luce di ciò l’Autore tira le sue conclusioni. C’è questa guerra fredda e spietata e non si avverte nell’aria il vento caldo della rivoluzione, auspicabile, certo, ma altamente improbabile. Neanche la pace costituirebbe l’alternativa.
In esergo al capitolo 4 leggiamo: Laddove c’è la volontà, c’è una strada. È di Lenin e si capisce a cosa alludesse. Oggi avremmo perso quel principio strategico mentre ad averlo conservato e sviluppato sarebbe solo il nostro nemico. Basta riappropriarsene ritornando al quel pensiero e a quell’azione, insiste il Nostro. Capiamo finalmente perché si è cacciato in quel vicolo cieco: per fedeltà al Novecento, al secolo della rivoluzione proletaria.
[1] F. Engels, Violenza ed economia, Edizione Rinascita, Roma 1951, p. 116.
[2] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Editori Laterza, Roma-Bari 2020, p. 25: “La storia non è il terreno della felicità. I periodi di felicità sono pagine vuote nella storia poiché sono i periodi di concordia nei quali manca l’antitesi”. La pace come la felicità.
[3] Lenin, Il socialismo e la guerra, Edizioni Rinascita, Roma 1949, p. 52.
[4] Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Newton Compton Italiana, Roma 1972, pp. 31-32.
[5] Guerra o rivoluzione, cit., p. 5.
[6] Per restare alla tradizione cui appartiene il nostro Autore, AA. VV., Imperialismo e classe operaia multinazionale, Feltrinelli Editore, Roma 1975.
[7] Guerra o rivoluzione, cit., p. 11.
[8] Ivi, p. 12: “«battersi contro gli effetti (la guerra), lasciando sussistere le cause (il capitalismo)», era considerato dai rivoluzionari un «lavoro infruttuoso», e noi siamo con loro”.
[9] V. I. Lenin, Quaderni filosofici, Feltrinelli Editore, Milano 1970, p. 112, p. 113.
[10] C. Schmitt, Teoria del partigiano, il Saggiatore, Milano 1981, p. 40.
[11] Sul tema J. Esser, Per un’analisi materialistica dello Stato, Savelli Editore, Milano 1979.
[12] Guerra o rivoluzione, cit., p. 38, p. 41, p. 44, p. 133.
[13] G. Colli, La sapienza greca, III, Adelphi Edizioni, Milano 1982, p. 35.
[14] Guerra o rivoluzione, cit., p. 98.
[15] Ivi p. 79.
[16] Ibidem.
[17] Ivi pp. 80-81: “Il potere non sarebbe tanto «dell’ordine dello scontro tra due avversari […] quanto dell’ordine del governo». Una relazione di potere è «un modo di azione che non agisce direttamente e immediatamente sugli altri, ma che agisce sulla loro azione», azione su un’azione (governo politico), e non azione sul corpo (violenza). La relazione di potere perde la sua naturale violenza per ridursi esclusivamente a «sollecitazione, incitazione, impulsione»” che agisce pacificamente sulla «soggettività» o, secondo un altro lessico, un affetto che agisce su un altro affetto”.
[18] M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi editore, Torino 1977, p. 17.
[19] Guerra o rivoluzione, cit., pp. 85-89.
[20] Ivi p. 88.
[21] Ivi p. 109.
[22] Ivi p. 130.