Il segreto di un libro giallo ben riuscito risiede sicuramente nella trama. Anche la scrittura ha il suo peso – e vi sono autori di gialli con una scrittura assai elegante e raffinata. Ma la trama è quello che ci avvince e che ci lega alle pagine che stiamo leggendo. Questo è tanto vero che nel tempo si sono andate affermando diverse definizioni della letteratura poliziesca. E sono tutte legate alla trama, alla posizione della vittima e a quella dell’investigatore. All’inizio era il giallo classico che può vantare campioni del calibro di Agatha Christie, Arthur Conan Doyle, Edgard Wallace e molti altri che imbastivano la proposta narrative sul meccanismo delle indagini deduttive in cui l’investigatore, lontano dall’ambiente e dalle situazioni che riguardavano la vittima, riusciva a interpretare indizi fino a giungere alla soluzione finale. A questo genere ha fatto seguito l’hard boiled che prevede l’investigatore interno alla scena del crimine, fin quasi a usare le stesse categorie e le stesse tecniche dei criminali che persegue. E infine il noir, genere assolutamente di moda ai giorni nostri, che costituisce una sorta di evoluzione dell’hard boiled, tanto per farla breve.
In conclusione, tutti hanno costruito intorno alla tipologia di trame, ai ruoli e ai modelli dei personaggi il loro specifico identitario. E Maurizio Foddai cosa fa? Unisce i due modelli narrativi fin quasi a far impaginare nello stesso romanzo due racconti diversi. In tutta la prima parte, che occupa circa un terzo della narrazione, l’atmosfera e le dinamiche sono eminentemente noir. Tra i più cupi e dolenti. Nella seconda parte, che occupa il maggior numero di pagine, ci conduce all’interno del semplice giallo tradizionale, anche se piuttosto avvincente.
L’espediente serve all’autore per definire il passato, forse addirittura la biografia di un uomo, Gabriele, che sarà uno dei protagonisti anche della seconda parte del racconto. Il lettore ha il privilegio di conoscere quale siano state le scelte e i comportamenti di Gabriele e misurarli poi in un altro contesto con tutte altre funzioni e altri esiti. Emerge così una dimensione originale che gratifica Gabriele di una narrazione che, sebbene un po’ cupa, interroga il lettore sulla terribile complessità che mette in relazione il bene e il male. Gli altri personaggi, quelli presentati secondo lo schema della narrazione tradizionale, hanno uno spessore meno rilevante, nonostante alcuni di loro non abbiano nulla da invidiare ai peggiori ceffi dell’umanità. Violenza sulle donne, violenza sui bambini, comportamenti loschi e fraudolenti tutti appannaggio di gente “per bene”, rispettabili borghesi.
Chi vive, chi rimane, allora deve rassegnarsi al ruolo della vittima? Può uscire dalla rabbia e dalla depressione in cui fatalmente precipita dopo aver perso una persona cara e vicina? Aspetta la giustizia o può abbandonarsi alla vendetta, magari con il compiacimento di chi si sente talmente in credito da pensare di poter disporre degli altri, anche i più criminali, come se fossero oggetti? A completare il quadro appena descritto, nella prima parte abbiamo il commissario Jozef Wounters che, in modo un po’ prevedibile e scontato per chi conosce il genere, è stufo di fare il poliziotto e si rifugia tra gli abbracci consolatori della moglie Nadine. Wounters può essere facilmente preso a esempio e pretesto di una giustizia, di una legge ormai inadeguata ad affrontare la realtà. Ma viene anche da domandarsi se la realtà sia quella che concretamente viviamo nelle nostre vite oppure il libro ne offre solo una rappresentazione per dimostrarci quanto capace di cattiveria sia il genere umano. Leggere per credere, in attesa di leggere i tre successivi polizieschi che vedranno in azione gli stessi protagonisti.