Mio marito, esordio della giovane scrittrice parigina Maud Ventura che le è valso il Prix du Premier Roman francese, racconta i dietro le quinte di un matrimonio felice che – come tutti i matrimoni felici della letteratura – sembra essere tale solo in apparenza. Lo fa percorrendo una strada insolita e poco battuta, quella segnata dal punto di vista di una moglie che, dopo quindici anni di matrimonio e due figli, è innamorata del marito. O meglio, come recita l’incipit dell’opera, è ancora innamorata del marito. Talmente innamorata da decidere di annotare in un diario i torti di lui – che spaziano dal voler dormire con le persiane chiuse ad affronti quali paragonarla a una clementina durante un gioco di società a casa di amici – e le sue attenzioni, come lo scegliere il tavolo giusto al ristorante o l’arrivare in anticipo agli appuntamenti con lei. Anche se, indubbiamente, i torti superano di gran lunga le attenzioni, scatenando sospetti e instaurando un crescendo di ripicche dai toni accesi.
Dal lunedì alla domenica, in pagine fitte di disarmante ironia e di puntuali e dissacranti constatazioni sull’amore, sulla maternità, sul mondo del lavoro e sulla società, seguiamo la protagonista, insegnante di inglese e traduttrice, nelle montagne russe dei suoi umori coniugali, lasciandoci travolgere dalle sue trovate e dalle sue sferzate che, nel duro gioco della sopravvivenza amorosa, non risparmiano nessuno, nemmeno i figli, i quali, ad esempio, “fortunatamente […] sono sempre andati a letto prima rispetto ai compagni di classe della loro età. Ho ricordato loro l’importanza di una buona dormita centinaia di volte. […] La preoccupazione per il sonno dei miei figli deriva in realtà dal mio egoismo, da un bisogno fondamentale: quello di trascorrere varie ore ogni sera da sola con mio marito”.
Quando finalmente si ritrovano soli, lei impegna tutta se stessa a non far rimpiangere al marito il tempo speso con lei, intrattiene conversazioni scegliendo con cura gli argomenti, si preoccupa di ogni dettaglio delle scenografie dei loro incontri, tanto che l’amore da lei decantato sembra presto somigliare a una specie di ossessione, nella quale ognuno può scegliere fino a che punto ritrovarsi, ovvero se liquidare come estranea ogni forma di desiderio di controllo sull’amato, oppure se riconoscere nei gesti e nei pensieri volutamente estremi e paradossali della protagonista qualcosa che, in fondo, può riguardare anche il più sereno e risolto degli innamorati.
Se di sicuro ciò che più colpisce inizialmente di questo romanzo è lo stile fresco, brillante e divertente, è importante sottolineare come la sua forza non si esaurisca nelle battute argute e nelle trovate esilaranti – che pur basterebbero di per sé a reggere l’intera opera. Mio marito è disseminato di indizi per una lettura più profonda del testo, che ha a che fare con domande sul significato dell’amore e sul ruolo della donna nella società contemporanea. Il marito della protagonista ha un lavoro prestigioso, proviene da una famiglia benestante ed è un bell’uomo. Lei nasce in un ambiente modesto, insegna al liceo e non ha “davvero niente di straordinario per la società”. “Per fortuna sono molto bella”, chiosa subito dopo, spalancando con una semplice frase una voragine sulla posizione della donna nel mondo borghese a cui i due appartengono, dove, ancora una volta, e confutando qualsiasi considerazione secondo cui le classi più abbienti sarebbero quelle dove la parità di genere è più diffusa proprio grazie a una maggior disponibilità di strumenti non solo finanziari ma anche culturali, la donna è chiamata ancora e sempre a fare da soprammobile. Un soprammobile parlante, magari, ma pur sempre un soprammobile. A proposito della “disparità” tra i due leggiamo: “Mi dà fastidio comunque che questo squilibrio sia così lampante per tutti. Mi dà fastidio soprattutto che se ne possa parlare liberamente, che sia socialmente accettabile mettermi al corrente e dirmi senza alcun imbarazzo ‘Sei proprio fortunata’. Non mi pare che qualcuno abbia mai detto a mio marito che anche lui è fortunato ad avermi”.
Senza mai appesantire il suo stile, Ventura riesce a suggerire le tracce di un nuovo vocabolario amoroso, nel quale si ammette senza enfasi e senza imbarazzo il peso della società all’interno della coppia e dove, trascinati da un’ironia intelligente, si finisce a riflettere più seriamente – fino al colpo di scena finale, che farà rileggere l’intero impianto della “follia amorosa” della protagonista con occhi nuovi – sul tipo di eredità che vogliamo lasciare ai posteri: “Se mi svegliassi domani mattina nel corpo della ragazzina che ero a dieci anni, farei lunghi studi scientifici per diventare astrofisica o cosmonauta, imparerei il latino e il greco, diventerei campionessa di scherma. […] Non perderei nemmeno un altro minuto a essere innamorata.”