Matthias Nawrat appartiene a quella schiera di narratori i quali, memori della scrittura onirica di W.G. Sebald, aspirano cogliere i riverberi del passato costruendo una temporalità sfumata e sfuggente. In L’ospite triste la vertigine del tempo si manifesta improvvisamente, in una scena che evoca qualcos’altro, e trasportando altrove il protagonista, in una fisionomia che, risalendo indietro nelle generazioni, ci proietta in epoche remote, strette al presente da misteriosi legami, in un’occhiata che si perde nelle fughe del tempo. Il presente diviene un trampolino per tuffarsi nel passato. Berlino è lo scenario, città sommamente evocativa dove la storia è presente in maniera fisica, simbolo di una realtà frantumata dove regna la separazione. Il paesaggio urbano mostra il suo volto spiazzante, con la luce che sembra frutto di una regia artificiale e le ombre che non seguono le comuni leggi della natura, con lo spazio fisico che perde d’improvviso le proprie coordinate a rivelare qualcosa di misterioso e strano.
Lo scenario ideale per mettere in scena i drammi dell’Europa, e in particolare l’attrito fra Est e Ovest. I personaggi di Nawrat sono berlinesi solo di adozione, essendo nati altrove. Leopoli, fulcro della Galizia eternamente contesa, ha dato i natali alla madre dell’architetta Dorota. Alla fine del secondo conflitto mondiale questa viene deportata dall’esercito sovietico in Germania insieme ad altre centinaia di persone. La strana patologia di cui soffre l’architetta, che si manifesta con improvvise amnesie che le fanno perdere del tutto l’orientamento, o che le occultano persino il proprio nome, simboleggia lo spaesamento, la mancanza di punti di riferimento. L’attore rumeno Eli, cercando la libertà, si impantana per caso a Berlino, un luogo punteggiato di rovine, di detriti e di cantieri, una città dove il processo della distruzione si è manifestato con estrema violenza. Il chirurgo Dariusz trova un impiego presso una pompa di benzina. La morte del proprio figlio in Bolivia lo spinge a intraprendere un viaggio alla ricerca di un fantasma, un tragitto che ci parla della vanità di ogni impresa umana. Una danza d’ombre lo avvolge; chi potrebbe raccontargli qualcosa non ricorda più, perché tutto precipita nell’oblio con estrema rapidità.
Le voci si moltiplicano nel corso della narrazione, a costruire un romanzo corale di enorme suggestione. Il protagonista appare condannato ad ascoltare queste storie, come il convitato nella Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, prendendo su di sé tutto il dolore che queste si portano dietro. Nawrat si aggira per le strade di Berlino alla ricerca di indizi, di frammenti che possano gettare un po’ di luce in un mondo dominato dall’oscurità. Le pareti stesse, le stanze, i mobili paiono lanciare timidi richiami, come volessero raccontare episodi dei quali sono stati testimoni. Una abile stratificazione costituisce il tessuto narrativo. Fili apparentemente esili collegano le flebili tracce seguite dal narratore. Figure di grandi scrittori, come Conrad o Kafka, balenano per un istante, facendoci percepire l’insensato procedere dell’esistenza. La tragedia dell’Olocausto è l’eclissi di un intero mondo, come compare nell’opera superstite di Bruno Schulz, un pensiero insopportabile perché non vi è più nulla da fare per porvi rimedio: “È sorprendente come gli esseri umani non imparino mai a gestire l’incertezza dell’esistenza, ad accettarla e a farsi forza l’un l’altro, affratellandosi contro la solitudine. Invece preferiscono spargere odio, abbandonarsi a un’ideologia, condannando il mondo a ricadere in guerre sempre nuove”.
L’orrore della storia appare come una minaccia dalla quale nessun riscatto è possibile. Lo scrittore non può far altro che sporgersi sul baratro del tempo, cercando di decifrarne i segnali, non può far altro che registrare le voci provenienti dai suoi neri abissi, con tutta la partecipazione emotiva di cui è capace.