Il nome di Matthew Josephson risulta praticamente ignoto in Italia, ma negli USA è ancora ricordato come biografo di qualche fama, specializzato in letteratura francese – sue le biografie americane di Zola, Rousseau e Stendhal – oltre che autore di un importante saggio di storia economica, The Robber Barons, in cui, all’inizio del New Deal roosveltiano, criticò aspramente i Tycoons del capitalismo statunitense. Il testo, assai più piacevole, che Minimum fax ha da poco licenziato è invece la traduzione di un memoir uscito nel 1962, Life Among the Surrealists, in cui l’autore ricorda la sua scapigliata giovinezza di poeta d’avanguardia dapprima al Greenwich Village di New York, nell’immediato primo dopoguerra e poi, soprattutto, nella Parigi degli anni ’20, con una parentesi più breve e tarda a Berlino (in cui raccolse gli echi dell’agonia della Repubblica di Weimar e del primo consolidarsi del nazismo), quando era editore associato e condirettore delle riviste Broom. An International Magazine of the Arts (1922–24) e Transition (1928–29).
Briosamente aneddotico ma anche ricco di acute osservazioni letterarie e sociologiche, il libro di Josephson è una galleria ininterrotta di profili minuziosi e molto spesso sagacemente ironici dei più grandi nomi della poesia e delle letteratura americana e francese del periodo – che l’autore ha incontrato e conosciuto, più o meno intimamente, tutti – dal patriarca del modernismo, l’autoesiliato Ezra Pound con il suo allievo prediletto T.S. Eliot, ai dinamitardi dell’anticlassicismo, E.E. Cummings, William Carlos Williams e Hart Crane, dal già famoso Eugene O’Neil all’ancora ignota Djuna Barnes, da John Dos Passos e Sherwood Anderson fino a Gertrude Stein e Ernest Hemingway. E poi i francesi: quando Josephson arriva a Parigi nel 1921 il Dada sta ancora deflagrando e Tristan Tzara è il personaggio di riferimento. A lui si affiancano il fotografo Man Ray – emissario dei geniali anticipatori Marcel Duchamp e Francis Picabia nell’asse culturale Parigi-New York – il musicista Erik Satie e lo scrittore Jean Cocteau e, di lì a poco, quelli che diventeranno gli amici più intimi, Louis Aragon, il più vicino, André Breton, Philippe Soupault e Paul Éluard. Josephson è testimone delle prime lotte di potere interne al movimento, tra Tzara e Breton (“Nel 1921 Breton metteva già da parte Tzara per assumere la guida della piccola setta dadaista”, “Gli uomini del circolo di Aragon e Breton sembravano tutti poeti e scrittori ormai arrivati: ma André Breton, ‘l’Incorruttibile’, biasimava senza remissione coloro che si guadagnavano il pane scrivendo per la stampa commerciale”).
Molto interessanti le caratterizzazioni dei grandi nomi dell’avanguardia: Aragon, “gentile e generoso Aragon, che dava sempre senza riserve la sua amicizia”; André Breton, “divideva gli esseri umani in imbecilli e angeli […] usava una maniera deliziosamente paterna con i discepoli che sedevano docili ai suoi piedi, e con i quali era largo di protezione e aiuto”; Paul Éluard, “ricco di famiglia, lavorava di giorno all’agenzia di beni immobiliari di suo padre e scriveva versi di notte. Aveva sposato una vivace emigrata russa dagli occhi neri che si chiamava Gala (più tardi moglie di Salvador Dalì)”; Max Ernst, “L’appassionata amicizia tra Paul Éluard e Max Ernst ebbe in realtà un effetto collaterale inaspettato dopo che i due giovani decisero di trascorrere insieme l’estate del 1922. Una corrente ad alta potenza scoccò tra il bel Max e la sensibile Gala Éluard e la conseguenza fu che Max si separò dalla moglie e dal figlio e si trasferì nell’appartamento degli Éluard, vicinissimo al suo: Paul Éluard, avendo ovviamente sacrificato la sua seducente moglie al generoso entusiasmo per l’amico, si adattò come potè a rappresentare la parte del marito ingannato, ma talvolta appariva irrequieto e nervoso”.
E così via, tra aneddoti divertenti e considerazioni critiche acute, Josephson ci descrive il trapasso dal Dada al Surrealismo, uno scontro (o una metamorfosi) inevitabile, “in parte motivato dallo spirito autoritario e dominatore del giovane caposcuola, e in parte dal desiderio di imprimere ai suoi seguaci una direzione nuova e più positiva, in contrasto con lo spirito negativo uniformemente dimostrato da Tzara. Il dadaismo e Tzara dovevano essere distrutti entrambi. Il dadaismo era diventato futile, si limitava a giocare con mere velleità e negava troppe idee e principi positivi per i quali, invece, Breton voleva combattere. Lui andava verso una nuova fede derivata dalle tradizioni romantiche e dalla letteratura francese proto-surrealista”. Un secondo momento di tensione all’interno del movimento sarà quello del 1928-29 – vissuto da Josephson in modo meno diretto, ma comunque adeguatamente commentato – quando Breton con il Secondo Manifesto del Surrealismo, decretò che dovere dei surrealisti era mettersi al servizio della Rivoluzione: l’adesione al marxismo, e in quale forma, spezzò irreparabilmente consolidate amicizie. Breton scelse Trotskji e la Quarta Internazionale, furono espulsi dal gruppo e scomunicati tutti quelli che non accettavano le nuove direttive: Aragon preferì Stalin e l’ortodosso Partito Comunista francese, altri, anarchici o comunque anticomunisti, come Artaud, Soupault, Ernst, Éluard, Vitrac, Masson, Prévert e Queneau furono tutti sostituiti da nuove figure come René Char ed altri.
Non vengono trascurati, nei pittoreschi ricordi dello scrittore, i personaggi minori ma ugualmente significativi come specchi di un mondo e di un’epoca, ad esempio Jacques Rigaut, “Bello come un attore cinematografico, perdigiorno di spirito, vestiva stilizzati abiti inglesi e sfoggiava ricche cravatte […] il suo principale interesse era il suicidio, e considerava la vita come una preparazione a quest’ultimo. Un amico intimo di Rigaut e di Aragon, molto vicino al campo dadaista anche senza appartenervi, era l’aristocratico Pierre Drieu La Rochelle […] si era fatto, sotto le armi, una reputazione di eroe, ed era l’autore di un famoso diario di guerra […] Drieu soleva vantare ricche amanti che lo fornivano di larghi mezzi, che gli permettevano di offrirci generose distribuzioni di champagne…”. E più avanti: “Il 6 novembre 1929 lessi sul giornale che il mio vecchio amico dei giorni dadaisti-surrealisti a Parigi, Jacques Rigaut, si era suicidato a New York […] quella tragedia gettava una lunga ombra sul movimento surrealista di cui il simpatico Jacques aveva sempre fatto parte, e nel quale si era tanto parlato del suicidio come di una vocazione”. Quanto a Drieu La Rochelle: “Drieu finì col passare nel campo nazista al tempo dell’occupazione tedesca, comportandosi per parecchi anni come un dittatore pronazista della stampa francese: nel 1944, quando gli Alleati si avvicinavano a Parigi, decise di suicidarsi”. Josephson non ne parla, ma nel frattempo Drieu aveva scritto il suo capolavoro, Fuoco fatuo, eternando l’amico Jacques Rigaut, sotto il nome di Alain, a figura iconica – fragile e a suo modo eroica – del suicida non per disperazione ma per stanchezza esistenziale, un personaggio che, ancora negli anni della Nouvelle Vague cinematografica francese, sarebbe stato incarnato splendidamente dal grande Maurice Ronet – un Alain Delon triste e perdente – nell’omonimo film del 1963, il più bello mai realizzato da Louis Malle, che vanta tra l’altro una straziante colonna sonora: non avrebbe potuto essere altrimenti, le Gymnopédies e le Gnossiens di un altro dadaista, Erik Satie.
Tutti questi innumerevoli e inaspettati collegamenti – fuori scena, digressioni private, cronache minime, talvolta gossip salaci, sullo sfondo più grande dello scenario di rinnovamento artistico e letterario novecentesco – vengono ripercorsi nel vivace e appassionante memoriale di Josephson, un testo il cui recupero nella collana Introvabili va a grande merito di Minimum fax e che non può mancare tra le letture di chiunque sia interessato, a qualunque titolo, alle avanguardie storiche europee e statunitensi.