Matteo Ward / I vestiti sono un problema?

Matteo Ward, Fuorimoda! Storie e proposte per restituire valore a ciò che indossiamo, contributi di Michelangelo Pistoletto e Sara Sozzani Maino, DeAgostini Editore, pp. 253, euro 17,90 stampa, euro 9,99 epub

Se il “cambio armadi” stagionale, con annessa tutta la montagna di sacchi neri stracarichi di vestiti da destinare ai bidoni gialli per la raccolta, ci sembra inaffrontabile, possiamo incolpare nientemeno che Luigi XIV, il Re Sole, che, nel tentativo di accelerare e incrementare l’economia dissestata di un Paese in crisi, decretò come “fuori moda” gli abiti delle stagioni precedenti, producendo una corsa all’acquisto da parte di nobili e borghesi che volevano sentirsi inclusi in un sistema sociale in cui l’abito – possiamo qui azzardarlo – faceva il monaco.

A partire da questo dato storico che in qualche modo ufficializza le origini del processo che ha portato all’insostenibilità della moda, Matteo Ward, ex manager “pentito” di Abercrombie & Fitch, oggi coautore e protagonista di Junk – Armadi pieni, docuserie tv coprodotta da Will Media e Sky Italia, docente universitario e cofondatore di WRAD, studio che si occupa di sensibilizzare le aziende e i consumatori nei confronti del fashion system, ha scritto un saggio estremamente godibile che mira a far luce sui processi umani, ambientali ed economici che sono alla base del nostro rapporto con ciò che indossiamo.

Il saggio si divide in due parti, una destruens e l’altra costruens. La prima parte, sapientemente introdotta dal testo di Michelangelo Pistoletto che apre il libro con una conversazione con l’autore sulla sua  celeberrima “Venere degli stracci”, ci mette di fronte a fatti, a dati e avvenimenti di cui probabilmente abbiamo già sentito parlare ma che, esposti insieme, assumono l’evidenza di una realtà che sarà difficile ignorare: il crollo del Rana Plaza, in Bangladesh, dove oltre mille operaie e operai tessili sono morti, costretti a lavorare in un edificio pericolante; le montagne stratificate di vestiti dismessi del Ghana, un Paese dove oggi arrivano 15 milioni di vestiti di scarto a settimana, talmente immense e sedimentate che i suoi abitanti ci hanno costruito sopra le proprie case; gli accumuli di vestiti interrati nel deserto di Atacama, in Cile, solo per citarne alcuni.

Grazie al saggio di Ward, queste catastrofi che noi stessi, in quanto consumatori, abbiamo contribuito a creare, ci appaiono decisamente più vicine e urgenti. Capiamo di essere parte di un sistema insano che è da smantellare dalle radici, partendo innanzitutto – e come sempre, vorremmo aggiungere – dalla conoscenza. Uno dei pregi del saggio di Ward risiede nel fatto che non ci sentiamo mai giudicati per quelle che sono diventate abitudini di consumo talmente diffuse da sembrare quasi normali pur nella loro mole esagerata: Ward riconosce le pulsioni emotive legate all’acquisto di un capo di vestiario, e proprio partendo dall’emotività, riesce a scomporre pezzo dopo pezzo un sistema che ha fatto del marketing, e non della funzione dell’ “oggetto” vestito, il centro di un mondo che ha perso di vista non solo la misura, ma anche i valori fondamentali di un equilibrio umano e ambientale, mostrando anche come questi aspetti siano imprescindibilmente interconnessi.

Nella seconda parte del saggio, Ward cerca invece di mettere le basi di un percorso costruttivo capace di indicare possibili vie di risposta all’enorme problema sopra esposto. E con altrettanta grande chiarezza e onestà, ci confida di non avere una soluzione univoca, ma ci suggerisce anche che ciò non vuol dire restare con le mani in mano, anzi: dall’analisi delle etichette a quelle dei tessuti, dal greenwashing alla “sostenibilità” sbandierata di alcuni marchi, dalle nostre abitudini di consumatori alle linee guida per i designer, Ward offre non solo spunti, ma obbiettivi realistici e concreti che possiamo porci per prendere parte a una auspicabile rivoluzione del sistema-moda: piccoli cambiamenti che, su vasta scala, possono contribuire non solo alla salvaguardia dei lavoratori e dell’ambiente, ma anche del nostro portafoglio e, non ultimo, alle stesse case di moda. Incredibile? No, perché se è vero che la moda è “capace di vedere il futuro” anche perché è intimamente connessa con ciò che siamo e con ciò a cui vogliamo somigliare, una via per uscire dalla crisi in cui questo settore si trova potrebbe essere quella suggerita da Giuliana Matarrese, che firma la postfazione al libro, ovvero: riprendere, nel progettare abiti, “a fare cultura, anziché fabbricare meri prodotti”.