La fortunata e straordinaria esplosione del genere poliziesco, giallo e noir, ha costretto autori e autrici a diversificare le caratteristiche della loro offerta. Un tempo questa differenziazione era principalmente tra giallisti alla Agatha Christie (un enigma criminale da risolvere e una caratterizzazione ambientale volutamente scarsa) o alla Raymond Chandler (una voluta insistenza sull’interazione della personalità del detective con gli altri personaggi e i dettagli d’ambiente). Oggi invece la prima tendenza è generalmente perdente, non perché gli scrittori abbiano smarrito la capacità di elaborare complicati congegni narrativi, con indizi e depistaggi letterari, bensì per la richiesta da parte dei lettori di personaggi più complessi, che meglio favoriscono la volontaria sospensione dell’incredulità che permette la discesa in un atout separato dal mondo reale, durante quelle ore in cui siamo immersi nella lettura.
Questo progressivo slittamento del gusto ha aperto il campo alla nascita del nuovo polar (i francesi, e poi Larsson, Vázquez Montalbán, Camilleri e altri) che per lungo tempo a cavallo del passaggio di millennio ha rappresentato il genere letterario più adatto per indagare e comprendere la realtà, il mondo, la società – e questo a mano a mano che settori della letteratura “alta” si chiudevano nell’indagine del privato, punto d’arrivo di un minimalismo del quale si raccoglieva solo l’aspetto solipsista.
L’interesse del pubblico ha attratto verso il genere molti autori di qualità, però ha indotto a una naturale differenziazione nella qualità dell’offerta, condotta soprattutto sulla figura del detective. Non voglio dire che esiste solo una limitata quantità di possibili meccanismi gialli se il protagonista che indaga è sempre una figura istituzionale delle forze dell’ordine, o un investigatore privato come nella fiction d’oltreoceano, ma che l’individuazione di figure professionali-sociali differenti consente una migliore interazione con l’ambiente e gli altri personaggi, nonché un punto di vista più libero sulla vicenda criminale. Da qui, una moltiplicazione di detective non istituzionali: insegnanti, avvocati, anatomo-patologi, medici, adolescenti, studentesse, giornalisti, assistenti sociali, persino baristi, e così via, finché oggi un pubblico quasi assuefatto a una determinata tipologia di trama si mette a cercare l’originalità nella costruzione psicologica della figura-detective.
Ora, tutti sappiamo dell’esistenza di una scorciatoia nella caratterizzazione del detective, così abusata da condizionare persino il gusto del pubblico, che percepisce talvolta come non-conforme la violazione di tale regola; mi riferisco al cliché del trauma nel passato del detective: ha ucciso senza volerlo un innocente, e questo ricordo lo perseguita come un fantasma; qualcuno molto vicino a lui è stata ucciso da un criminale e lui non è riuscito a impedirlo; se il detective è una donna, ha subito una violenza sessuale che non è riuscita a “elaborare”; e via dicendo. Ciò significa che abbiamo appreso la lezione di Philip Marlowe e Pepe Carvalho, ma se questa diventa la regola abbiamo un problema.
Tutto ciò premesso per dire che è possibile caratterizzare a fondo un personaggio senza cadere nel cliché: e qui arriviamo a Matteo Severgnini, scrittore di Omegna che ambienta le sue storie intorno al lago d’Orta, e al suo detective Marco Tobia, del quale “PulpMagazine” ha già recensito i due precedenti episodi. Tobia è un investigatore privato, che ha lasciato la Polizia di Stato dopo un incidente nel quale ha involontariamente reso invalido un collega. Alle origini del fatto c’è la patologia invalidante dalla quale è affetto Tobia, la sindrome di Tourette, che lo costringe a violenti movimenti riflessi e a verbalizzazioni incontrollabili. Ci sarebbero dunque tutti gli elementi per catalogare Marco Tobia nel cliché del “trauma nel passato” insuperabile — e invece non è così. Soprattutto per tre motivi: 1) il collega ferito nell’incidente non gli porta rancore; 2) la sua situazione sentimentale è più che soddisfacente, dal momento che ha una relazione con una donna che accetta la sua (relativa) menomazione; 3) le manifestazioni della Tourette gli sono persino utili talvolta per cavarsi dagli impicci.
In questo terzo libro della serie, il cui titolo non è soltanto una frase fatta ma ha una relazione diretta con la trama, Tobia si trova coinvolto personalmente in un piano criminale a causa della minaccia diretta alla sua compagna, Clara. Il romanzo inizia “a freddo”, malgrado la descrizione di un omicidio nelle prime pagine; la costruzione del plot segue tre trame parallele che sembrano molto distanti tra loro, e questa separazione viene mantenuta a lungo, sollecitando la curiosità intellettuale del lettore. Marco Tobia, che oltre alle monache del convento di clausura, è l’unico abitante permanente dell’isola di San Giulio, al centro del lago d’Orta, si sposta tra qui e Milano, con una puntata a Parigi.
Ci sono diversi twist nella storia, e ogni volta sembra di arrivare al cuore della trama, ma è soltanto un’illusione. Neppure il protagonista si rende conto della ragnatela che gli viene tessuta intorno: da questo punto di vista, è persino svantaggiato rispetto ai lettori, che almeno intuiscono la minaccia, senza riuscire a capire come Tobia riuscirà alla fine a annodare i fili sparsi. Abbiamo dunque un’indagine atipica, che per buona parte del libro il protagonista subisce, prima di rendersi conto di cosa accade; anzi, dettaglio originale per “depistare” il lettore, all’inizio Tobia svolge (o è convinto di svolgere) un’indagine differente, che a un certo punto si dissolve.
Naturalmente, il romanzo non si discosta troppo da altri cliché, che i lettori vogliono trovare: la minaccia fisica, reale e diretta, deve a un certo punto concretizzarsi, e il movente deve essere solido e plausibile. Tutto ciò c’è; per chi ha già letto i due libri precedenti, questo terzo è una conferma, con un gradino di qualità in più. Chi invece si approccia per la prima volta a Marco Tobia, non fatica a entrare nel suo mondo di giustizia e umanità.