Matteo Meschiari / La geografia degli uomini

Matteo Meschiari, Landness. Una storia geoanarchica, Meltemi, pp. 240, euro 20,00 stampa, euro 14,00 epub

Per secoli la geografia è stata la scienza dell’avventura coloniale. Le mappe nautiche e le rappresentazioni cartografiche hanno proiettato l’uomo (bianco) ai quattro angoli del globo terracqueo, assicurandogli un vantaggio competitivo rispetto ad altre civiltà, tracciando i confini fissati dal diritto di guerra su terre lontane e (per lui) inesplorate. Ma ad altri la geografia ha anche indicato un altrove, l’esplorazione di mondi sospesi nella dimensione immaginativa, nell’attraversamento della natura e del landscape. Prova ne sia il fascino che le mappe hanno esercitato anche sulle fantasie infantili. Così è stato, in particolare, per Élisée Reclus, Pëtr Kropotkin e Mosè Bertoni, tre geografi anarchici dell’Ottocento, tre uomini dalla cui vicenda – scientifica, umana, politica – il libro trae spunto.

La loro parabola, specie quella di Bertoni che fonda una comunità utopica in Sudamerica, è stata riassorbita dal tempo, sospinta in un angolo della memoria storica, mentre i loro rilievi scientifici sono oggi noti per lo più a storici, geologi e geografi di professione. Quello che ci hanno lasciato e che torna utile oggi richiamare è invece la loro idea di geografia, “non come disciplina ortopedica del disordine naturale ma come pratica dell’immaginario, come tensione esplorativa dell’invisibile”. Non una narrazione “letteraria” tout court ma una geografia scientifica dotata di visione: “quel qualcosa che a un geografo nasce dalla contemplazione di un paesaggio irriducibile, incoercibile, dal potere evocativo di ciò che nella mappa non c’è ancora”.

Al centro di Landness. Una storia geoanarchica, c’è il concetto di territà. Che cosa significa? Leggendo lo si riconosce come un sentimento cosmico ma sempre situato in un “dove”, omeostatico con il resto del mondo e perciò stesso eversivo dal punto di vista di un capitalismo postmoderno che ha ereditato dall’industrializzazione ottocentesca tabella e direzione di marcia. Ma, più in generale, può indicare la consapevolezza, non solo intellettuale ma immaginativa, di appartenere in quanto specie sapiens a questo pianeta.

Per Matteo Meschiari, antropologo, geografo e scrittore da anni impegnato in una ricerca indipendente sulla condizione dell’Antropocene, la territà è soprattutto precondizione psichica per ripensare il nostro status antropologico, guardando oltre l’orizzonte della catastrofe, indagando la percezione dello spazio, dell’ambiente, del paesaggio. Lasciando al loro destino i detriti novecenteschi ma anche il rumore di fondo delle mode filosofiche e il bricolage distopico dello streaming. Per ritrovarsi occorre prima perdersi, per ritrovare l’energia creativa di cui i sapiens oggi hanno disperatamente bisogno occorre prima cambiare immaginario e non solo modo di pensare.

Questa disposizione emerge come un torrente carsico dalle pagine del libro, ma il suo possibile significato lo si intuisce solo al termine del viaggio, in cui incontriamo, tra gli altri, scrittori naturalisti come James Kilgo, poeti come Gary Snyder o Kenneth White. Di quest’ultimo, forse, anche lo slogan che si presta a sintetizzare il senso di questo camminamento estetico-esistenziale attraverso la wilderness: “Dal Surrealismo del sé alla geopoesia del mondo”. Perché non è solo un pantheon di artisti e pensatori, variamente seminali nella formazione dell’autore, quello che si offre saltando da Jakob von Uexkull ad Antonin Artaud, si tratta di incontri in carne e ossa, vissuti personalmente o surrogati nell’immaginazione dello scrittore ma sempre reali agli effetti della esperienza narrativa.

Uscito per i tipi della nuova collana Atlantide di Meltemi, dopo i volumi di De Landa, Latour, Žižek, Landness mescola il saggio erudito con il memoir, scivolando dall’uno all’altro attraverso raccordi brumosi, incursioni fulminee e sterminate digressioni. Un libro che al termine del suo auto-racconto ti lascia più ricco e, finalmente, almeno un po’ disorientato, perché “In geografia, quello che veramente conta è quello che non c’è. Perché quello che manca va pensato, desiderato, immaginato”.