Per quelli della mia generazione (late boomers) la stagione della musica dal vivo [1] inizia virtualmente con i lacrimogeni al concerto dei Led Zeppelin al Vigorelli nel 1971 e culmina dieci anni dopo con quello di Bob Marley a San Siro. In entrambi i casi io non c’ero, troppo giovane per i Led Zeppelin, troppo snob per accondiscendere alle inclinazioni rastafariane dei miei coetanei nel secondo caso (preferii un concerto di “musica creativa improvvisata” in Liguria e me ne dolgo ancora). Leggendo questo libro, che ha l’ardire di raccontare oltre 40 anni di rumore musicale in giro per l’Italia ho capito che probabilmente non c’era neppure Massimo Giacon, fumettista, designer, artista a 360 gradi, egli stesso a sua volta musicista. In ogni caso non li troverete, come non troverete Santana o Bruce Springsteen, e troverete pochissimi cantautori. Il libro serve credo a spiegare che cavolo di musica ascoltavamo e abbiamo continuato ad ascoltare fino a oggi.
Fondamentalmente “la new wave italiana, il free jazz punk inglese”, che faceva storcere il naso anche a un musicista anomalo e a suo modo geniale come Franco Battiato (a proposito: c’è pure un capitolo su di lui nel libro). Per farla breve i Devo, i Talking Heads, i Lounge Lizards, Pere Ubu, ma anche i Gaznevada e i Confusional Quartet. All’inizio per noi non c’era il verbo ma i Kraftwerk, ça va sans dire. Come osserva Theo Teardo nell’introduzione: “A un certo punto si era aperto uno stargate e coloro che ci sono finiti dentro hanno iniziato a pensare che tutto fosse finalmente possibile”. Suoni perversamente pop e programmaticamente noise hanno cominciato a fuoriuscire dal vinile, esalati da un’elettronica mai stata prima così a buon mercato e, al tempo stesso, consapevole al punto di caricarsi sulle spalle lo spirito del tempo e portarlo fino a noi. Ma, se proprio devo fare un nome che riassuma la minoria avanguardistica e schifiltosa e l’elitismo vagamente esoterico dei nostri gusti musicali del tempo, direi senz’altro: i Residents. Se non li conoscete forse fareste meglio a passare alla recensione successiva. Oppure a cercarli su Youtube, fate voi. Il fatto è che quando ho conosciuto Massimo Giacon all’inizio degli anni ’90 mi fece ascoltare quasi rapito l’ultimo disco del fantomatico gruppo californiano, sarà stato tipo il dodicesimo o il tredicesimo. Loro erano sempre lì, non avevano smesso (e continueranno per altri 30 anni). Per me, che da quando avevo cessato di “occuparmi di musica” (si fa per dire) speravo che la musica stessa avrebbe contraccambiato il favore uscendo definitivamente dalla mia vita, fu un colpo bassissimo. Tanto valeva arrendersi ed accettare la realtà: la musica, e intendo quella musica fatta di nastri, batterie elettroniche, vocine distorte, non se ne sarebbe andata. E ancora mi piaceva. Poi, per fortuna, sono arrivati gli MP3, gli streaming, etc, e scoprire roba nuova era diventato anche troppo facile, ma non prima che un’amica mi facesse conoscere i Massive Attack.
Masticando Km di rumore è un libro concepito e realizzato a schede, ogni scheda un concerto e un duplice, prezioso memoir, insomma un testo e un’immagine, che forse sarebbe più corretto definire “illustrazione”. Anche se Giacon è fondamentalmente un artista visivo, infatti, è la narrazione testuale in questo caso a farsi strada per prima verso il vostro cervello. L’immagine – che può consistere in un dettaglio tratto dal vissuto del concerto, altre volte nel ritratto acido dell’artista – in genere segue e ricapitola l’episodio, un po’ come l’ontogenesi con la filogenesi.
Giacon inizia il suo viaggio dal punto di vista di un giovanissimo e talentuoso fumettista di provincia (Padova), assurto nel gotha fumettistico della rivista Frigidaire, di Pazienza, di Tamburini. Il punto di vista della provincia (come l’evoluzione dei “concerti politici” di Radio Sherwood) e del contesto musicale nordestino (The Great Complotto, per fare un nome) sono fondamentali in questa storia. Un concerto dopo l’altro, Giacon ci racconta la trasformazione che, a partire dai primi anni ’80, ha investito il DNA della società italiana, mutamenti che anche la scena rock più o meno sperimentale ha provato a decodificare, o comunque a riflettere, nella riconfigurazione dell’offerta musicale (dai festival ai mega concerti, dal prog mediterraneo al post punk, etc.) come nell’immagine e nei progetti delle band che a ondate uscirono allo scoperto a Bologna, a Milano, a Pordenone, etc. Ma, anche, a partire dai ’90, il ripiegamento della scena “art rock” nella moda, nei concerti a invito, nelle serate di design milanese con il sottofondo degli Air o di Aphex Twin.
Di questa scena underground Giacon è stato un animatore: assieme a Piermario Ciani e Vittore Baroni, fondò Trax, un network internazionale che ha coinvolto oltre 500 artisti, e resta tenacemente fedele allo spirito di questa scena, non solo musicale, mettendone a nudo con un sorriso anche i tic “darkettoni” e i piccoli rituali stilosi. Forse anche per questo, giunto ai giorni nostri, nelle ultime pagine del libro preferisce restituirci, accanto all’immagine involontariamente nichilista ma in fondo beneaugurante di Young Signorino, quella sciaguratamente malinconica ma ancora tonica dei Tuxedomoon e di Lydia Lunch ormai ultra sessantenni, davanti al pubblico svagato di un CSOA, invece di una delle loro memorabili esibizioni giovanili. Il rumore non ha età.
[1] Per la stagione precedente rinvio al classico, fondamentale, Superonda (Baldini Castoldi, 2016) di Valerio Mattioli. Ma è un altro discorso.