Già anni fa Massimiliano Tomba affrontava il problema di una diversa angolazione prospettica rispetto alla concezione della storia universale moderna, dominante in Occidente negli ultimi due secoli, in cui lo sviluppo storico seguirebbe linee preordinate secondo una logica neutrale, necessaria, e progressiva. Questa concezione della modernità ne mette in ombra il carattere di segmento storico particolare, i cui principi portanti sono rappresentati dallo stato nazionale, il modo di produzione capitalistico e la proprietà privata, con tutto il macchinario giuridico fondato sull’eguaglianza formale dell’individuo astrattamente inteso. Il tempo storico diventa il tempo omogeneo, cronologico, calcolabile, vuoto del capitale. Così, la sottomissione di forme diverse di modi di vivere, di ritmi temporali diversi – il colonialismo ne è l’aspetto più evidente e violento – in base a una idea di progresso storico unilineare “permetteva di misurare a quale grado di civiltà (occidentale) venivano a trovarsi popolazioni con storie diverse da quella europea, giustificando il dominio di chi veniva rappresentato più in basso” (Strati di tempo, 2011, p. 11).
Rispetto a questa concezione della storia, tutti i tentativi – tanti – di praticare percorsi diversi non possono che essere considerati deviazioni e deragliamenti contingenti; oppure, nella migliore delle ipotesi, assalti velleitari il cui fallimento è già impresso nella incapacità di valutare la “maturità” dei tempi, e quindi destinati inesorabilmente al silenzio o alla condanna della storia. Uno spostamento di prospettiva non implica una maggiore capacità di rappresentazione oggettiva della realtà, quanto piuttosto permette di cogliere ciò che un’altra prospettiva ignora o semplicemente occulta: lo “spostamento opera un disvelamento” (Ivi, p. 15).
Insurgent Universality riprende, continua e integra questo tema, collocandolo in contesti storici particolari. Ne deriva una lettura diversa di quegli accidenti della storia. Ma per far questo c’è bisogno di “una storiografia appropriata” (p. 11). Fin qui, se si trattasse di ristabilire la giusta ottica dello storico, la cosa, per quanto importante, forse non riuscirebbe a catturare tutta la nostra attenzione. E, certo, sarebbe importante esplorare il lato oscuro, meglio, oscurato, della storia e ricostruire il volto dei soggetti che ne sono stati esclusi. No. Non si tratta solo di questo.
Il discorso di Tomba ci sembra assai rilevante soprattutto per due aspetti: la parzialità e l’attualità. La storiografia appropriata non può che essere una “storiografia critica” (p. 14). Questo significa soprattutto rompere con il continuum della storia così come l’universalismo moderno ce la rappresenta; e mostrare la sua incompletezza. I sanculotti e gli schiavi in Francia e a Haiti nel 1793, i comunardi a Parigi nel 1871, i bolscevichi nel 1918 in Russia, gli zapatisti nel Chiapas del 1994: quattro momenti – tra gli altri – in cui il corso della storia è interrotto e si aprono prospettive che sono state bloccate e represse. Ma non annullate, nel senso che si proiettano oltre il momento e aspettano ancora di essere realizzate. È in questo senso che rappresentano “l’incompiutezza del passato” (p. 13).
La parzialità è espressamente rivendicata. Contro l’universalismo moderno, ma anche contro l’ideologia post-moderna, che dissolve il passato in una miriade di punti di vista, tutti legittimi, tutti equivalenti, tutti indifferenti. No. La parzialità significa esplicitare la proprio collocazione e, soprattutto, “le implicazioni teoriche e politiche che ne derivano” (p. 12). Una presa di posizione, dunque, e qualcosa di più della semplice adozione di un diverso punto di vista storiografico. Il che implica la specificazione di un soggetto che conosce e agisce. Qui soccorre la Tesi XII della filosofia della storia di Walter Benjamin: “Il soggetto della conoscenza storica è la classe stessa oppressa che combatte” (Ivi). È a questo soggetto che lotta, ai soggetti che lottano, che ci si riferisce quando si parla di universalità insorgente. Nei vari episodi esaminati, due sono gli aspetti importanti: da un lato l’attenzione per forme di vita esistenti e considerate anacronistiche nella visione lineare dello sviluppo storico. E dall’altro, l‘”eccesso democratico che dis-ordina un ordine esistente” (p. 21) non si disperde nel caos – tanto temuto dai fautori dell’ordine statuale – ma si sedimenta nella costruzione di forme istituzionali di qualità diversa. La resistenza all’ordine costituito cessa di essere puramente reattiva, e quindi ancora subordinata alla temporalità dello stato e del modo di produzione capitalistico, e procede in modo che “la configurazione di nuove istituzioni viaggia con una diversa temporalità, con un ritmo diverso e lungo una traiettoria diversa” (p. 212).
In questo quadro, i cosiddetti anacronismi – come la comune contadina russa o le comunità indigene del Chiapas – cessano di essere realtà arretrate, ritardi, sopravvivenze in attesa di essere sincronizzate forzosamente con la pretesa tendenza oggettiva della modernità, e diventano invece “serbatoi di energia, in grado di riorientare e costruire nuove possibilità di vita comune” nel presente (p 27). Ridiventano attuali e attuabili. Passato e presente si incrociano con il futuro al quale alludono e verso il quale si proiettano. Questo è il filo rosso che lega tutti i tentativi di insorgenza e liberazione che hanno percorso la storia. E tanto per restare aderenti a un tempo più vicino a noi, questa è la tensione che muove gli zapatisti – veri e propri “storici in azione” (p. 14). Autogoverno, pluralità di poteri, rapporti politici fondati sulla pratica collettiva di assemblee, gruppi e comunità, relazioni rispetto alle risorse fondate sull’uso e non sulla proprietà: tutti elementi che caratterizzano l’universalità insorgente e che si ritrovano in più di un arcaismo che i tentativi di liberazione rivitalizzano e praticano. Insomma, “un altro modo di fare politica” (p. 210).
“Vogliamo un mondo in cui possano stare assieme molti mondi” (p. 28), afferma la Quarta dichiarazione degli zapatisti del 1996 e ne riassume l’idea di pluralità di modi di essere nel mondo e la pratica che ne consegue. Così, queste pratiche passate escono dalle parentesi in cui sono state collocate e diventano una vera e propria legacy, un’eredità, un “arsenale di futuri”, da reinventare e reinvestire da parte di chi agisce oggi “nel campo della storia, e non da parte dello spettatore o dello storico” (p. 13).
Universalità insorgente, universalismo moderno, due modi diversi di guardare alla storia e alla pratica politica, due strade possibili. Merito dell’autore del libro l’avere scelto di procedere come nei ben noti versi di Robert Frost: “Divergevano due strade in un bosco, e io … / Io presi la meno battuta, / E di qui tutta la differenza è venuta”.
Qui un estratto del libro di Massimiliano Tomba sull’esperienza zapatista.