Nel romanzo intitolato La colazione dei campioni, a Midland City, città immaginaria dell’immaginifico universo letterario di Kurt Vonnegut, si svolge un cialtronesco Festival delle Arti. Lì, nell’autunno del 1972, si incontrano lo sfigato scrittore di fantascienza Kilgore Trout e lo sballatissimo rivenditore di Pontiac usate Dwayne Hoover. Il festival è organizzato da Fred T. Barry che, pur ammettendo di non avere mai letto un romanzo di Trout, rivela che gli è stato raccomandato come il più grande romanziere americano vivente. Lo scopo del festival, al di là di ogni propensione culturale, è solo un evento che deve glorificare la potente e ricca madre di Barry che aveva costruito il nuovo Centro delle Arti, “una sfera trasparente montata su pilastri”, senza finestre, che “quando era illuminata all’interno, la sera, sembrava una luna piena nascente”.
Questo romanzo di Massimiliano Nuzzolo si muove con furbizia all’interno della cultura umana, accarezzandone i miti, ma con una vocazione eterodossa che lavora con gli strumenti di critica sociale e politica propri di Vonnegut e arriva fino alla mitologia profana di Neil Gaiman. Gli attrattori tra cui si muove questa storia di Nuzzolo, posizionati con attenzione lungo tutta la narrazione, sono come i pop bumper di un flipper, accelerano il lettore e lo proiettano con traiettorie sghembe verso altri urti, riferimenti letterari che forse non riconosce immediatamente (e molti gli resteranno ignoti), ma che lavorano sotterraneamente creando una particolare suspence – quella di riconoscere una situazione letteraria che però segue altre tracce, si ibrida e si trasforma in un nuovo racconto. La stessa scelta del titolo evoca una letteratura che dalle apocalissi, che svelano e rivelano, passa per gli anni a cavallo di Ottocento e Novecento, con il romanzo di fantascienza pubblicato da Camille Flammarion e l’opera futurista di Volt (autore de Il programma della destra fascista, tra le tante cose), fino al proliferare incontrollato nel cinema e nella televisione. Ma la fine del mondo descritta da Nuzzolo è imbevuta più della cultura e della tradizione italiana che del catastrofismo statunitense (del resto esperti del settore, per avere nuclearizzato un paio di città in Giappone) e se devo trovare un cinico ma bonario riferimento mi tornano in mente le battute di Alberto Sordi nel film di Vittorio De Sica intitolato Il giudizio universale o, su un fronte culturale più strutturato ma affatto in contraddizione, le pagine di Ernesto De Martino sulle apocalissi culturali. Ne La fine del mondo di De Martino – il suo saggio con lo stesso titolo del romanzo di Nuzzolo – viene sviluppato il concetto di fine di “un” mondo, soffermandosi sull’unicità dell’esperienza dell’individuo e spiegando che questa fine non ha nulla di patologico, “anzi è un’esperienza salutare, connessa alla storicità della condizione umana”, per cui a una fine corrisponde una rinascita che genera diversità e nuove singolarità. Una prospettiva che trovo anche ne La fine del mondo di Nuzzolo, una apocalisse rigeneratrice declinata nella catastrofe grottesca.
Nel romanzo, chi ci accompagna allo spettacolo della fine del mondo è, tra i tanti personaggi che si muovono nella narrazione, uno scrittore che si dirige verso un festival della letteratura. Un festival, come nel caso di Kilgore Trout, che è stato organizzato per tutto tranne che per la letteratura. Quello che oggi si direbbe “un evento” (parola da trattare con sospetto, un po’ come “influencer”, da sparare a vista), un raduno della mondanità inteso come sfrenata pratica di ciò che è terreno, temporale e materiale. Quell’astruso concetto che indica “tutto ciò che accade”, una visione rassegnata di noi e della nostra esistenza, dei suoi limiti intrinseci, ma che Nuzzolo, come Vonnegut, intende denunciare apertamente quando si manifestano nella loro versione più volgare. Tanto volgare che Dio stesso ne è sopraffatto e costretto a intervenire.
Tra fantascienza e realismo crudele, La fine del mondo è la storia di uno spettacolo finito male (beh, questo dipende dai punti di vista…), un festival letterario organizzato da un individuo che “mai in vita si sarebbe sognato di aprire un libro” e il cui fine è il fatturato che ne può discendere. Il richiamo a La colazione dei campioni è qui evidente, anzi Nuzzolo sembra pretendere che il lettore lo conosca e ne conservi una vivida immagine della memoria, perché altrimenti il suo stesso libro perderebbe senso e la lettura ne coglierebbe solo caos e significati oscuri e sfuggenti. E se oltre a Vonnegut la chiave di lettura fosse anche Thomas Pynchon, altro giocatore di azzardo con la fantascienza, in cui il nonsense richiama a codici non immediatamente accessibili, magari quel great code che è la Bibbia? Direi che il libro, dal punto di vista dei riferimenti su cui si poggia, sia un vero flipper e chi legge deve accettare d’identificarsi con una sfera di acciaio la cui traiettoria che sembra caotica possa essere in realtà scientificamente determinata. Ma è questione di fiducia, perché i razionali non li tradurrà mai tutti e dovrà abbandonarsi allo scrittore: presenza che nel romanzo sgomita con i suoi personaggi per promuovere il suo messaggio incazzato e la critica verso un mondo – letterario e non – che non gli piace.