“Chi è il signor Putin?” si domanda Masha Gessen nel suo volume L’uomo senza volto, pubblicato per la prima volta nel 2012 e oggi riproposto con una nuova introduzione dell’autrice. Quali meccanismi hanno permesso a un singolo uomo di mantenere così a lungo il potere in maniera assolutamente incontrastata, questa la domanda che percorre le pagine del volume. Secondo Gessen, Putin ha trasformato il paese in una gigantesca copia del KGB, dove non c’è spazio per alcuna forma di dissenso o di libero pensiero. Putin ha vissuto il crollo dell’Unione Sovietica come un trauma irreversibile, un’immane tragedia geopolitica. Per questo il compito dal quale si sente investito è quello di restaurare, per quanto possibile, lo status quo.
Dalla grande confusione degli anni Novanta emerge rocambolescamente un leader, il quale dimostra immediatamente di voler governare con pugno di ferro. Appoggiato in prima istanza dall’oligarca Berezovskij, Putin riesce ad affrancarsi da coloro che gli spianano la strada, costruendo gradino dopo gradino un sistema di potere inattaccabile. L’immagine iniziale del teppistello arrogante cede il passo a quella del dittatore spietato. Il terreno sul quale si muoveva era particolarmente fertile: la popolazione appariva smarrita, delusa da Eltsin e disperatamente desiderosa di riconquistare il senso di unità che da sempre le apparteneva. Mentre le persone lottavano per rifarsi un’esistenza, uno Stato all’interno dello Stato proliferava, un mondo parallelo che rispondeva al nome di KGB. È noto come Putin sia emerso dai meandri dell’organizzazione, solo apparentemente dismessa con la fine dell’Unione Sovietica, in realtà sopravvissuta nei suoi meccanismi di controllo.
Come in un romanzo distopico, Gessen ricostruisce l’immagine di un mondo chiuso, all’interno del quale si percepisce un senso di opprimente claustrofobia. Trame oscure si dipanano, mentre gli eventi reali superano qualsiasi immaginazione. La corruzione si diffonde come una pestilenza. Le ricchezze si accumulano nelle mani di pochi. Come in un racconto di Kafka, le persone vengono imprigionate senza un motivo apparente, mentre le accuse a loro carico vengono continuamente cambiate per impedirne la scarcerazione e inibire qualsiasi possibilità di difesa. Nomi come quello di Naval’nyj o di Chodorkovskij, ormai noti al pubblico occidentale, si alternano ad altri poco conosciuti, ugualmente inghiottiti dal grande baratro della Russia. Gli assassinii di spicco, quello della Politovskaja, o quello di Litvinenko, ancor più eclatante in quanto perpetrato con il polonio-210, prodotto solo in Russia, chiaro indizio secondo Gessen di un mandato governativo, si alternano a quelli meno diffusi dai mass media, a costruire una geografia dell’orrore impressionante.
Le tragedie degli ultimi decenni, l’affondamento del sommergibile Kursk, la strage di Beslan, la crisi del teatro Dubrovka, le guerre in Cecenia mostrano il volto di un potere spietato, che non esita a sacrificare vite umane pur di raggiungere i propri scopi. Per questo la scrittrice dissente da Naval’nyj, il quale definiva il partito di governo come una masnada di ladri e truffatori. A suo avviso caratteristica del regime è la sete spietata di potere, mentre la ricchezza è solo uno strumento. Gessen restituisce l’immagine di un paese nel quale il voto non ha più senso, in quanto orientato a senso unico e privo di reale opposizione, un luogo dove l’informazione è morta da tempo, soffocata da leggi che di fatto impongono il monopolio di Stato. L’utopia aleggia sulle ultime pagine del libro, la speranza che sia possibile cambiare qualcosa. Le elezioni del 2011 mostrano alcune crepe nell’apparentemente inattaccabile sistema. Proteste si diffondono a macchia d’olio, mentre manifestazioni che prima apparivano impensabili attirano folle di persone. Gessen respira l’aria di rinnovati desideri, e della conseguente disillusione. La storia ci racconta che al potere c’è sempre il medesimo uomo, e che la guerra in Ucraina è solo un ulteriore, macabro sviluppo di una strategia consolidata.