Lo studio di Marzio Barbagli approfondisce in tutti i suoi variegati aspetti un tema piuttosto trascurato dalla ricerca storica: la pratica della castrazione e la produzione di eunuchi, un tipo umano assai più richiesto di quanto si immaginerebbe sui mercati internazionali un po’ in ogni epoca e a quasi tutte le latitudini del mondo. Molte delle notizie ricavate dalla lettura del libro, oltre che abbastanza sgradevoli, sono assolutamente sorprendenti.
La castrazione di esseri viventi inizia molto anticamente in parallelo con lo sviluppo dell’allevamento e della domesticazione di mammiferi. Praticato unicamente in Eurasia (i popoli delle Americhe lo scopriranno solo dopo aver avuto contatti con gli europei), l’allevamento degli animali aveva ormai dimostrato – data la necessità di un assai minor numero di maschi rispetto alle femmine per la riproduzione – l’utilità di trasformare, per esempio, imprevedibili tori in tranquilli buoi, oltre alla assai maggiore gradevolezza della carne di maiali, capretti e agnelli castrati. Dagli animali agli uomini il passo è breve: la distribuzione geografica della mutilazione si diffonde in aree esattamente coincidenti con quelle in cui si è sviluppata la coltura di bovini, ovini e suini. I primi a praticarla massicciamente sono gli Assiri che già ai tempi di Assurbanipal la infliggono come segno di supremazia ai prigionieri di guerra e come condanna ai rei di adulterio o di sodomia: da Ninive e Assur la produzione di “uomini senza barba” si estende a Babilonia e in Caldea, poi fra gli ittiti e i persiani. Ciro e in seguito Alessandro utilizzeranno ormai gli eunuchi normalmente, affidando loro anche incarichi importanti come consiglieri, governatori e comandanti militari. I romani invece considerarono dapprima questa pratica una deviazione orientale adatta solo ai “barbari” (per una sopravvalutazione della virilità caratteristica di certi popoli guerrieri: anche i giapponesi, a differenza dei cinesi, non la adottarono mai), ma dal II secolo a.C. in poi, i seguaci di Cibele e Attis prima e molti dei primi cristiani poi, che si auto-eviravano per rimanere casti, la importarono anche a Roma, dove già Terenzio (riprendendo Menandro) tra i primi ne tratta a teatro.
Delle Spintriae, diffuse presso le corti di imperatori e patrizi romani, parleranno anche Tacito e Svetonio. Alcuni imperatori come Nerva, Adriano, Antonino Pio, Domiziano (che aveva per amante uno schiavo eunuco) promulgarono leggi severe contro la castrazione (che avveniva allora solitamente per compressione e non per taglio dei testicoli) entro i confini dell’Impero, ma in genere non proibirono l’acquisto di schiavi castrati altrove, merce che raggiunse quotazioni altissime sul mercato. I Bizantini invece conferirono particolare rilevanza sociale agli evirati: solo questi infatti avevano accesso diretto alla persona dell’imperatore, si occupavano del suo aspetto, lo lavavano e vestivano, vegliavano sul suo sonno e il suo risveglio come gran ciambellani e cubicolari, fino a costituire una sorta di vera e propria nuova aristocrazia. Anche a Bisanzio non tutti gli imperatori furono sostenitori della pratica: ad esempio Giustiniano vi si oppose, punendo chi evirava bambini con l’identica pena dell’evirazione, che quindi, in certo modo, veniva così istituzionalizzata. Grandi castratori furono poi sia gli islamici che i cinesi di tutte le dinastie imperiali. Presso arabi, turchi e cinesi l’evirazione era di solito completa, cioè non prevedeva solo il taglio dei testicoli ma anche quello del pene: già che si fa trenta tanto vale fare trentuno, pensavano.
La natura di genere del fanciullo evirato era affrontata diversamente nelle varie culture e nei diversi periodi storici: ad esempio per i romani l’eunuco passava al genere opposto ed era considerato femmina; per i cinesi invece, e in parte anche nell’Islam, la mutilazione non inficiava la natura maschile del soggetto e agli evirati era concesso in Cina perfino il matrimonio e l’adozione di figli (perché potessero avere discendenti che assicurassero loro il culto degli antenati); a Bisanzio, seguendo le teorie di Galeno, erano piuttosto ritenuti un terzo sesso, né maschile, né femminile. In tutte le culture però venivano considerati servi fedelissimi, migliori di tutti gli altri: non avendo obblighi e legami familiari erano stretti da un sodalizio indissolubile con il loro protettore che li difendeva dagli insulti e dall’ostilità del prossimo; quando non ingrassavano troppo il loro aspetto era gradevole e sempre giovanile e la loro intelligenza, in teoria liberata dalla passioni carnali, si diceva più lucida e pronta, particolarmente adatta dunque a missioni politiche, diplomatiche e spionistiche. La loro condizione, oltre a che fluida tra i sessi, era anche squilibrata come status, alto nella gerarchia politica e basso nella considerazione sociale.
Per un eunuco la conversione di status – che un normale schiavo liberato poteva ribaltare – era impossibile, essendo dovuta a una mutilazione irreversibile. Questo rendeva l’eunuco una merce preziosa, nelle città musulmane dell’Africa, se uno schiavo costava a metà del XV secolo 60 dinari, un eunuco poteva arrivare a 3000, e a Bisanzio nel X secolo un evirato costava il quadruplo di uno schiavo integro. Il prezzo alto era dovuto anche al fatto che l’operazione aveva spesso esito infausto e molti fanciulli non sopravvivevano. I monaci copti dell’Egitto erano specializzati in quell’attività che molti viaggiatori occidentali consideravano “una vergogna della religione di cui usurpano il nome”, anche in Italia però, nel XVII e XVIII secolo, massimo periodo di successo degli evirati cantori, il lavoro era svolto in genere, più prosaicamente, dai norcini che si erano fatti la mano sui maiali. Il tasso di mortalità delle mutilazioni è molto controverso e varia in base alle epoche e ai luoghi. Questa non bassa percentuale di rischio comunque non impedì a molte famiglie indigenti, che speravano così di assicurare ai propri figli un migliore futuro presso qualche corte, di sacrificarli inducendoli con le buone o con le cattive, prima del compimento dei dieci o dodici anni, all’operazione: i fanciulli non accoglievano sempre questo obbligo con rifiuto e deplorazione, avveniva talvolta il contrario e sono riportati addirittura casi – non così rari come si potrebbe pensare – di auto-evirazione.
Particolarmente interessante è il capitolo sugli evirati cantori, voci di soprano o contralto che univano il tono e la grazia di una laringe di fanciullo con l’estensione e la potenza di polmoni adulti. L’uso di questi coristi nasce e si sviluppa in Spagna all’inizio del ’500 ma si afferma e diventa consueto poco dopo in Italia. La castratio euphonica – già praticata occasionalmente dai romani del III secolo d.C. e nell’Impero d’Oriente per i cantori della Chiesa ortodossa – doveva avvenire tra gli otto e i dodici anni, per prevenire la muta vocale della pubertà: in Italia veniva praticata normalmente da norcini o da barbieri che recidevano le vene dei testicoli e li estraevano dalla loro sede. Di solito l’idea di castrare un ragazzo proveniva da qualche maestro di canto o sacerdote direttore di cappella colpiti dalle doti canore di un giovane allievo: le prospettive, o molto spesso l’illusione, di una lucrosa carriera di divo dell’opera convinceva la famiglia e spesso anche il fanciullo al sacrificio. I più fortunati potevano finire come Farinelli, divenuto, oltre che mattatore delle scene internazionali, il personaggio più ricco e potente di Spagna dopo aver cantato per dieci anni tutte le notti da mezzanotte alle quattro di mattina le sue arie che, sole, avevano la facoltà di calmare le depressioni e indurre il sonno nell’animo tormentato del sovrano Filippo V di Borbone, ma i più – non altrettanto talentuosi o la cui voce si era deteriorata, come spesso succedeva, in seguito alla mutilazione – finivano oscuramente come maestri di canto, coristi in qualche chiesa o prendevano i voti. Con l’affermarsi del regime successorio patrilineare indivisibile nell’Italia del ’500, chi non era primogenito nelle famiglie della nobiltà e del ceto medio non aveva molte alternative al sacerdozio o alla castrazione. Gli evirati cantori entravano nel mondo del lavoro artistico assumendo una nuova identità e un nuovo nome, in genere diminutivi e vezzeggiativi che ricordavano maestri e benefattori o toponimi: così gli allievi del maestro Nicola Porpora furono denominati Porporino, vari castrati senesi diventarono Senesino, Carlo Broschi divenne Farinelli in onore dei fratelli Farina che lo avevano sostenuto negli studi; e poi gli eterni bambini, Nicolino, Felicino, Matteuccio, Clementino, ecc.
Variegate furono le opinioni degli intellettuali e dei sovrani dell’epoca sulla pratica dell’evirazione per fini artistici: gli Illuministi ne furono decisi avversari, Napoleone la vietò in tutti i suoi domini e così fece Francesco I nel Lombardo-Veneto dopo la Restaurazione, Stendhal invece la difese strenuamente come anche Gioacchino Rossini che pure aveva rischiato grosso quella stessa condizione: avendo una bellissima voce da bambino, solo la fiera opposizione della madre lo aveva salvato dalle intenzioni del resto della famiglia. Ultima in ordine di tempo la dichiarazione di Stravinsky che vedeva nella fine dei castrati “un passo avanti per l’umanità e uno indietro per la musica”.
Riguardo alla questione sessuale, i castrati, tutt’altro che immunizzati dalle passioni e dalla libido, furono attratti ed attrassero sia uomini che donne: così come sulla scena operistica interpretarono ruoli sia maschili che femminili attirandosi una nutrita audience di fan di entrambi i sessi, ebbero per amanti sia cardinali e duchi che principesse e nobildonne. Sedotte dalla mancanza di rischi di gravidanza e dal fascino di un essere idealizzato né maschio, né femmina, le donne persero spesso la testa per i castrati: così un letterato francese rassicurava il giovane paggio della duchessa Mazzarino costretto controvoglia all’operazione: “Non temete di essere meno amato dalle signore. Dimenticate questa preoccupazione. Non siamo più ai tempi degli imbecilli. I vantaggi derivanti dall’operazione sono oggi ben noti […] quello che conta è che avrete delle amanti, non una moglie, cioè sarete protetto da un gran male”. Eppure molti castrati vollero ugualmente sposarsi suscitando spesso accese controversie e il netto divieto papale in quanto, seppur avessero mantenuto la potestas coeundi, mancava loro la potestas generandi. Nei paesi protestanti ci fu minore intransigenza in proposito e alcuni castrati si convertirono per poter convolare a nozze; altri formarono invece coppie di fatto e convissero more uxorio con donne e talvolta anche con uomini. Se l’operazione non era stata eseguita troppo bene poi, qualcosa poteva anche ricrescere e sono perfino documentati rari casi in cui un castrato ha generato secondo natura dei figli.
Non è dunque fuori luogo che gli ultimi castrati restino patrocinio ormai esclusivo della Chiesa cattolica del Papa Re: solo dopo la liberazione di Roma nel 1870 e con somma riprovazione di Pio IX la pratica fu finalmente interrotta. L’ultimo cantore castrato fu Alessandro Moreschi (1858/1922), solista nel Coro della Cappella Sistina fino al 1902, che ci ha lasciato anche, per quanto la sua voce fosse ormai incrinata dall’età e le tecniche di registrazione assai rudimentali, una testimonianza fonografica che ci permette ancora oggi di farci un’idea delle capacità vocali degli ultimi eredi di Farinelli e del Senesino.