Il tempo proustiano, dando credito a analogie con inferni lasciati marcire nell’infanzia, si può scambiare, non certo agilmente, con premure poetiche rinvenute in libri che sono amati, e che ancora si amano nonostante innocenze perdute, archetipi biblici e lingue posteriori al lascito leopardiano. Mary B. Tolusso in Apolide, e nei libri che l’hanno preceduto, mette insieme le questioni complesse dell’attualità letteraria, e non si scompone di fronte ai falsi redditi dei molti. Dalla sua parte passeggiano Raboni e Porta (Antonio) non come ritratti ambulanti a cui pellegrinare in gramaglie, dalla sua parte abbiamo la necessità anche noi di voltarci con lo stesso sguardo che incrocia Bach e Malibù, notoriamente realtà diverse che infondono uguale piacere. Ma questa operazione, in Mary, si avvale di ironia e crudeltà, di sgambetti disseminati tra le file dell’orchestra sinfonica – poiché dovrebbe essere risaputo: in poesia nulla si dà come paradiso, e le tanto assaporate fanciulle in fiore non sono mai entrate nella camera imbottita di Proust. E, sia chiaro, in Apolide non esistono sconti per lettori e poeti vagheggianti bozzetti emotivi, o stupefazioni per “gadget” che nessuna confidenza può scambiare per madeleine ormai consumate a forza di rotolare dal passato. Manciate di prosa, a tratti confidenziali, per lo più rispecchianti un destino personale (“ma, perdiana, non avvicinarti troppo”), s’imbattono in brandelli di Mitteleuropa e baciano in bocca i demoni attuali, senza peraltro consentire a quest’ultimi una via di fuga dalla decadenza continentale. D’altronde l’autrice aveva già preso meravigliosamente le misure alle algide segretezze della sua Trieste nel romanzo scritto qualche anno fa: in L’esercizio del distacco (pubblicato nel 2018) le anime visionarie di adolescenti crescono al centro di mutazioni etniche e geografiche mentre musica e poesia (in egual misura presenti nella ricerca lessicale di Tolusso) vanno dritte nel corpo concreto della prosa.
In queste poesie capire il mondo si ritrova in una grazia inaspettata, come se una certa mondanità avesse da ripartire i pesi del presente su quanto un tempo ci toccò: i veri maestri, una volta per sempre. Ma è una cortesia, non tarda a presentarsi il conto attraverso la cancellatura di ciò che sembra: non credere al tenero rende “apolidi”, o meglio, si tratta infine di enumerare gli imbrogli. Capire molto bene che i milioni di finestre accese hanno il vuoto oltre le vetrate. Semplice numerarle, meno semplice non sottrarre la poesia all’essere donna con tutte le estraneità, le informazioni, le corrispondenze. “Chimicamente ridursi all’essenziale” troviamo scritto, e il corpo col “coro” dei tessuti non sogna come vorremmo, proprio non ha sogni, Tolusso ne è certa, lo dice a sé stessa in alcune pagine, disillusa forse, ma pienamente calata nella realtà dell’universo poetico in cui da molti anni crede. E quando il corpo scende nelle strade cittadine, e abbandona la chiarezza dei mattoni per la complessità stradale, la prosa trova il suo posto, la sua ragione d’essere nella realtà. Come dire che Proust è lasciato al suo destino novecentesco, ai suoi oggetti da camera, agli avanzi ormai consumati. Poiché nel lucido Piano Regolatore l’autrice ha leggi precise di struttura estetica e posti dove vivi e morti possono stare insieme. Gli imperi sono andati, un elenco lo conferma e non si dà facile vittoria a donne belle, a poeti amici, a coscienze letterarie disinformate poiché troppa brava gente non sta zitta ma dovrebbe. La leggibilità, infine, non è occultata, per tutti gli analisti impazienti è un bell’affondo, e per gli psicotici delle carte. Tolusso sta dalla parte del mondo che sloga le coscienze, misurando l’attenzione. Al popolo dei sognatori toglie le formule di successo, e improvvisamente capiamo quanto un libro come questo possa fendere il sistema del presente poetico italiano.