Marxismo Postmoderno. Ricordo di Fredric Jameson (1934-2024)

Fredric Jameson (1934-2024) A un mese dalla scomparsa già ci manca la sua immensa curiosità di conoscere, comprendere e cambiare questo nostro mondo, così lacerato dalle guerre, questa sua volontà di denunciarne le ingiustizie e di cambiarlo.

Fredric Jameson – recentemente scomparso all’età di 88 anni – è stato un grandissimo critico letterario, filosofo, critico della cultura. È stato un gigante degli studi culturali di ispirazione marxista o neomarxista. A lui si deve la fortuna del termine postmoderno per definire il panorama sociale, economico, culturale in cui viviamo ancora oggi. Il suo saggio sul postmoderno, Il Postmoderno, o la Logica Culturale del Tardo Capitalismo, pubblicato per la prima volta nel 1984 sulla “New Left Review”, poi rimaneggiato, ampliato e riproposto come volume nel 1991, rimane uno dei caposaldi della critica letteraria e della critica della cultura contemporanea, e uno dei saggi più letti, citati e commentati nella storia della critica letteraria e degli studi culturali. Il suo pregio più grande è stato forse la sua capacità di coniugare le correnti più avanzate della critica letteraria, della filosofia e della cosiddetta “Teoria”, con l’interpretazione marxista della realtà e della cultura postmoderna in cui siamo immersi. Caso raro nel panorama critico internazionale, Jameson univa una estrema consapevolezza per le aporie del linguaggio – avendo studiato a fondo le opere dei principali esponenti dello strutturalismo – de Saussure, Jakobson, Barthes – e del post-strutturalismo – Foucault, Derrida, Baudrillard, Deleuze e Guattari – senza mai dimenticare le sovrastrutture sociali che determinano la produzione di un testo, o le condizioni di possibilità della sua nascita e del suo sviluppo nella temperie culturale del suo tempo. Jameson riusciva a leggere le opere di Joseph Conrad, soprattutto Lord Jim, Nostromo e Cuore di Tenebra, utilizzando una grande raffinatezza di analisi, e allo stesso tempo ricollegando l’opera di Conrad alle tematiche del Colonialismo e del Modernismo.

Chi ha avuto la fortuna di conoscere Fredric Jameson ad uno dei numerosi convegni internazionali cui ha partecipato, sempre da protagonista, qualunque fosse l’argomento trattato, non potrà mai dimenticare la chiarezza della sua argomentazione, le sue straordinarie intuizioni critiche, la sua grassa risata quando riusciva ad affermare il suo punto di vista. Se ad un Convegno accademico partecipava Jameson, si poteva essere sicuri che partecipassero anche decine di studenti devoti, provenienti da varie università d’Italia, pronti a recepire le sue idee e la sua versione così originale del Marxismo.

Il pregio particolare di Jameson infatti, ciò che lo ha trasformato in una vera e propria star nel circuito dei convegni internazionali di Teoria e di critica letteraria, è l’aver saputo “attraversare” il Marxismo – e le sue varianti più o meno ortodosse – mantenendo sempre una grande originalità nelle sue interpretazioni, riuscendo a contemperare il materialismo storico con le più avanzate teorizzazioni dello strutturalismo e del post-strutturalismo, per non parlare dell’opera di Gyorgy Lukàcs, di Bertolt Brecht, di Walter Benjamin e della Scuola di Francoforte (Marcuse, Horkheimer, Adorno), movimenti che Jameson iniziò a studiare negli anni ‘50 e con cui il suo pensiero critico cominciò ad a interagire dialetticamente fin dall’inizio della sua straordinaria carriera.

Nel Novecento e oltre ci sono stati tantissimi intellettuali, tantissimi studiosi, anche italiani, che hanno voluto riprendere e attualizzare le idee di Marx e gli strumenti critici del marxismo, ma Fredric Jameson è uno dei pochi che abbia saputo trasformare radicalmente l’analisi marxista in uno strumento agile, adatto a comprendere l’evoluzione della cultura e delle forme artistiche collegate agli straordinari sviluppi del tardo Capitalismo.

Come diceva sempre, sulla scia dello stesso Marx, il capitalismo rappresenta ciò che di meglio, ma anche di peggio, sia mai capitato all’umanità. Il capitalismo è quella massa enorme di mezzi di produzione, di edifici, di oggetti, di informazioni, di immagini, che ci bombarda quotidianamente dai vari media, dal paesaggio urbano che ci circonda, dai cartelloni e dagli annunci pubblicitari. Il tardo capitalismo ci è entrato in testa, vuole sapere tutto di noi, vuole indirizzare i nostri pensieri di consumatori, ha colonizzato le nostre idee e perfino il nostro inconscio di scrittori e di lettori (The Political Unconscious, 1981). Nella nostra epoca contemporanea – diceva Jameson – siamo passati da una acuta consapevolezza della presenza delle cose, dell’ineliminabile reificazione della nostra esperienza quotidiana, ad un nuovo paradigma in cui le narrazioni e le metanarrazioni si accumulano in modo disordinato e ci costringono a fare ogni giorno un grande sforzo per padroneggiarle. Jameson è figlio del suo tempo: ha vissuto il cambio di paradigma culturale avvenuto tra gli anni cinquanta e sessanta, con il passaggio dal Modernismo di Joyce, Pound ed Eliot al tardo Modernismo di W. H. Auden e Wallace Stevens, e successivamente tra gli anni settanta e gli anni ottanta, il passaggio da Wallace Stevens e dagli espressionisti astratti – che si potevano ancora definire dei tardo modernisti – alla poesia postmoderna di John Ashbery e Frank O’Hara, all’estetica degli oggetti di Jasper Johns e del New Dada, per non parlare della Pop Art di Andy Warhol, che ha imposto sulla scena culturale e artistica una nuova estetica della superficie.

Con lui si inizia a parlare in campo artistico e letterario di postmoderno, inteso non soltanto come crisi delle metanarrazioni (secondo la formulazione di Jean-François Lyotard ne La Condizione Postmoderna, 1979) – e il marxismo all’epoca, con la sua grande promessa di emancipazione delle masse, era proprio una di quelle metanarrazioni “forti” che il post-strutturalismo e il post-modernismo intendevano decostruire e mettere in crisi – ma come una nuova consapevolezza da parte di una nuova generazione di architetti, di artisti, di scrittori (tra cui John Barth, E. L. Doctorow, Robert Coover, Thomas Pynchon, Don DeLillo), che riprendono le varie narrazioni moderniste e ce le ripropongono in maniera estremamente eclettica e indifferenziata, come “etichette” evocative che possiamo applicare ovunque, su qualsiasi superficie, senza più stabilire una gerarchia. Ecco dunque l’attenzione di Jameson per alcuni sviluppi dell’arte e della musica a lui contemporanea: è rimasta celebre la sua analisi comparata – nel suo saggio sul postmoderno – tra le scarpe ottusamente realistiche di Van Gogh (Un paio di scarpe, 1886) e la serie delle Diamond Dust Shoes (1980) estremamente luccicanti e “superficiali” di Andy Warhol. Ecco la celebre analisi del Westin Bonaventura Hotel di Los Angeles, edificio postmoderno che rifiuta i consueti canoni stabiliti dal Modernismo e dall’International Style, i canoni che stabiliscono come deve essere realizzato e “gerarchizzato” l’edificio moderno. Il Bonaventura Hotel dell’Architetto John Portman non riflette più una visione del mondo. I suoi specchi riflettono invece la realtà circostante ed eliminano qualsiasi punto di vista privilegiato dal quale osservare il suo ingresso (o ingressi) e la sua struttura portante.

Dunque Jameson ci ha dimostrato che siamo già sempre intrappolati nella Prigione del Linguaggio – titolo di una delle sue opere più importanti, pubblicata nel 1972 – che non possiamo uscire fuori da un linguaggio che ci determina e in cui siamo immersi, così come non abbiamo alcuna possibilità di sfuggire alla Logica Culturale del tardo Capitalismo che ci impone di fruire in modo così superficiale delle immagini, delle informazioni e delle (meta-)narrazioni. In questo contesto diventa anche difficile fare storia, ricostruire una verità storica che sia in grado di sottrarsi a questa generalizzata omogeinizzazione (omologazione?) culturale. Chiunque tenti di scrivere di storia in questo contesto contemporaneo deve per forza di cose essere consapevole di avere a che fare innanzitutto con dei testi, e che la crisi delle metanarrazioni ha molto indebolito, se non annullato completamente, il concetto di verità storica. In questa estrema consapevolezza della testualità della storia c’è già in embrione tutto quel filone di studi teorici che va sotto il nome di neostoricismo. C’è già in nuce tutta l’opera di Stephen Greenblatt e degli odierni Cultural Studies.

La crisi delle narrazioni è dunque funzionale ad una logica culturale del tardo capitalismo che Jameson non si stanca mai di denunciare e di analizzare, convinto come è che una possibile risposta a questa Logica sia l’unica possibilità per un pensiero critico che ha attraversato lo strutturalismo, e il post-strutturalismo, sempre mantenendosi in una prospettiva di analisi marxista e neo-marxista, che si pone come obiettivo finale di passare dall’analisi all’agire politico concreto nel mondo.

Il postmoderno annienta la consueta distinzione tra cultura alta e cultura bassa, tra cultura delle élite e cultura di massa o popolare. Da questo punto di vista, era straordinaria la capacità che aveva Jameson di tenersi al corrente di tutti i più recenti sviluppi culturali a lui contemporanei, in tutti i campi del sapere e della cultura. Quando mai abbiamo ascoltato ad un convegno uno dei nostri paludati accademici italiani citare il punk o la New Wave, i LANGUAGE Poets e i fumetti? Ecco, Jameson aveva una conoscenza sterminata dei più innovativi sviluppi del cinema, della musica, delle arti visive e della letteratura. Come diceva Conrad, “he was one of us”. Come l’uomo rinascimentale, nulla gli era estraneo: si interessava di tutto, era curioso di sapere tutto, consapevole com’era che la società va compresa in tutti i suoi aspetti, soprattutto quelli culturali. La sua cultura cinematografica era immensa. I suoi gusti poetici e musicali comprendevano un ampio spettro di poeti e di gruppi che arrivava fino a John Ashbery e ai Talking Heads, quando ancora i nostri accademici nostrani erano intenti a scrivere ponderosi saggi sul tema internazionale nei racconti di Henry James. Jameson era in grado di zittire qualunque accademico nostrano quando si faceva bello citando i suoi riferimenti musicali, Woody Guthrie e Bob Dylan, o al massimo Bruce Springsteen, mentre lui era già arrivato ai Clash e ai Sex Pistols, e li aspettava al varco. Non c’era partita quando qualcuno osava sfidarlo sul cinema di Hitchcock, di Antonioni, di Kubrick, di David Lynch, di Jean-Luc Godard, o sulle correnti più avanzate dell’arte contemporanea, come la video-arte di Nam June Paik o di Bill Viola.

Ci mancherà la sua immensa cultura e la sua immensa curiosità di conoscere, comprendere e cambiare questo nostro mondo, così lacerato dalle guerre e da una classe politica di incapaci ignoranti, che non hanno alcuna visione del mondo da proporre, e quando ce l’hanno è in molti casi apertamente reazionaria. Ci mancherà questa sua volontà di conoscere e interpretare il mondo, questa sua volontà di denunciarne le ingiustizie e di cambiarlo, nel tentativo di renderlo un po’ migliore di come ce lo hanno lasciato i nostri predecessori.