La tragica morte di Primo Levi nell’aprile 1987 si riverberò sulla ricezione de I sommersi e i salvati conferendo al libro uno statuto testamentario, sicché quel volume, ultima pubblicazione di Levi e compendio delle sue riflessioni su Auschwitz, fu (ed è tuttora) giudicato da taluni come un libro “pessimista”, scritto a un anno dal suicidio in uno stato «depressivo».
L’ampio e accurato studio di Martina Mengoni, italianista all’Università di Berna, autrice di diverse pubblicazioni sull’opera di Primo Levi e co-curatrice di una recente edizione scolastica de I sommersi e i salvati, smentisce questi giudizi infondati, ricostruendo la gestazione pluridecennale del libro, la cui elaborazione viene fatta risalire dalla studiosa al 1959, ovvero all’anno in cui l’editore Fischer di Francoforte acquistò i diritti per la traduzione di Se questo è un uomo. È lo stesso Primo Levi, nel capitolo conclusivo dei Sommersi, “Lettere di tedeschi”, a ricordare l’”emozione violenta e nuova” che lo invase a tale notizia, giacché i veri destinatari di Se questo è un uomo, “quelli contro cui il libro si puntava come un’arma, erano loro, i tedeschi. Ora l’arma era carica”. Ed è proprio nel carteggio con Heinz Riedt, traduttore in tedesco di Se questo è un uomo, che Mengoni ravvisa la presenza di riflessioni sull’esperienza del Lager, scaturite da disquisizioni lessicali e traduttive, che lasceranno dietro di sé una lunga traccia: riflessioni sul tema della vergogna, che, rielaborate, confluiranno nell’omonimo capitolo dei Sommersi, considerazioni sul suicidio, ovvero sul perché il suicidio ad Auschwitz fosse assai raro, commenti sulle modalità di comunicazione e sulla lingua dei Lager, valutazioni su aspetti sociali e antropologici del campo. L’operazione di autocommento cui Levi si sottopose in questo carteggio e lo scavo analitico impostogli dal rinnovato confronto con il suo romanzo costituirono il primo, prezioso nucleo di quell’indagine esistenziale e filosofica che permeerà di sé I sommersi, in ciò distante dall’intento prettamente “cronachistico e morale” (Mengoni) di Se questo è un uomo.
Complementare al carteggio con Riedt è la collaborazione con Hermann Langbein, storico austriaco, segretario generale dell’Internationales Auschwitzkomitee, che si rivolse a Levi nel 1960 perché partecipasse con un capitolo di Se questo è un uomo a un libro di testimonianze. L’antologia Auschwitz. Zeugnisse und Berichte (1962) conferisce riconoscibilità internazionale a Levi in un momento in cui egli non era ancora un personaggio pubblico, ne rinsalda lo statuto di testimone e contribuisce ad ampliare la bibliografia su Auschwitz che Levi andò raccogliendo e ampliando nel corso degli anni. In un periodo in cui l’opera di Primo Levi non era ancora antologizzata in Italia, capitoli di Ist das ein Mensch? compaiono in antologie destinate al grande pubblico tedesco: oltre al libro di Langbein, Mengoni cita l’antologia di matrice cristiana curata da Albrecht Goes, cappellano militare durante la guerra, Erkennst du deinen Bruder nicht? (1964), cui Levi partecipa peraltro con il capitolo Ottobre 1944, terribile resoconto della selezione per le camere a gas, in cui il narratore rigetta con sdegno ogni possibilità di redenzione divina per l’abominio a cui egli ha assistito.
Accanto a queste pubblicazioni, che – osserva Mengoni – ebbero un importante riverbero sulla attività di scrittura e di riflessione di Levi, si sviluppò nei primi anni Sessanta una fitta corrispondenza con i lettori tedeschi che Levi avrebbe voluto persino vedere raccolta in una pubblicazione autonoma (il “progetto tedesco”, come lo chiamava l’autore, restò tuttavia irrealizzato a causa del disinteresse della casa editrice Einaudi). Il confronto con i lettori tedeschi, molti dei quali erano giovani e dunque non compromessi con il regime nazista, fornisce a Levi nuovi spunti di riflessione sul tema della vergogna, ovvero sul sentimento di vergogna provato dalle generazioni successive che non avevano contribuito in alcun modo allo sterminio nazista; è un primo abbozzo della categorizzazione della vergogna come condizione multipla che Levi proporrà nel capitolo “La vergogna” dei Sommersi. Lo scambio con i lettori tedeschi contribuisce altresì ad ampliare la biblioteca tedesca dello scrittore, il quale sino ad allora – suggerisce Mengoni – aveva familiarità solamente con Thomas Mann e Heinrich Heine.
Suggerimenti di lettura fecondi affiorano nell’ampio (e ancora inedito) carteggio con Hety Schmitt-Maass, una giornalista socialista di Wiesbaden con cui Primo Levi fu in corrispondenza dal 1966 sino alla morte di lei nel 1983 e che Levi menzionerà con parole di encomio nel già citato capitolo “Lettere di tedeschi” dei Sommersi. Da Schmitt-Mass Levi riceve nel 1966 una copia del saggio su Auschwitz di Jean Améry appena pubblicato in Germania e che apparirà in Italia solamente nel 1987 con il titolo Intellettuale ad Auschwitz. La tragica figura di Améry e il suo saggio, che Levi definisce “amaro e gelido”, sono oggetto di commenti e riflessioni nel sesto capitolo dei Sommersi.
Grazie a Schmitt-Mass, inoltre, Levi riesce a entrare in contatto con Ferdinand Meyer, uno degli ingegneri tedeschi che avevano lavorato nella fabbrica di Buna-Monowitz, il quale aveva mostrato un atteggiamento di pietà e comprensione nei confronti dei detenuti che lì lavoravano. Da questo scambio epistolare nasce nel 1974 il racconto Vanadio, penultimo del Sistema periodico, in cui l’ingegner Meyer appare nelle vesti fittizie del Dottor Lothar Müller. A questo racconto e alla trasfigurazione letteraria in esso operata Mengoni dedica un’analisi attenta e articolata, consapevole che questo racconto costituisce “il primo esperimento di trasferimento letterario degli incontri (fisici ed epistolari) con i tedeschi” e che la figura dell’ingegner Meyer, che lavorava ad Auschwitz seppure come civile, che non era annoverabile tra i colpevoli diretti e che tuttavia sapeva, è espressione di quella zona grigia, di quella fascia intermedia tra oppressori e oppressi, composta di individui pronti alla collaborazione e al compromesso, che Levi indagherà in un celebre capitolo dei Sommersi e la cui stesura (1979-1980) è riconducibile del resto alla prima fase di composizione del volume.
Nella corrispondenza con Schmitt-Maas Primo Levi ha anche modo di commentare una pubblicazione che si rivelerà decisiva per la stesura dei Sommersi, ovvero Menschen in Auschwitz (1972), vasta collezione di documenti e testimonianze approntata da Hermann Langbein e in cui furono antologizzati anche diversi brani di Levi. Il libro, in cui è presentata, tra l’altro, la figura di Chaim Rumkowski, il megalomane decano del ghetto di Łódź cui Levi dedicherà un testo nel 1977 (Il re dei Giudei) nonché pagine memorabili nei Sommersi, fornisce a Levi uno sguardo più ampio e documentato sull’universo concentrazionario e gli consente di arricchire la visuale del testimone con la prospettiva più ampia dello storico che legge il passato alla luce del presente. Risale appunto ai primi anni Settanta un mutamento di prospettiva da parte di Primo Levi nei confronti dell’esperienza di Auschwitz, riconducile – commenta Mengoni – sia a circostanze biografiche (l’intensa attività divulgativa nelle scuole mette Levi a contatto con la sensibilità delle nuove generazioni e con le istanze del presente) sia al preoccupante contesto politico nazionale e internazionale in cui Levi e, più in generale, l’opinione pubblica progressista ravvisa l’emergere di una nuova minaccia fascista.
La volontà di fare di Se questo è un uomo “uno strumento per analizzare la contemporaneità” (Mengoni) affiora con estrema chiarezza nell’Appendice all’edizione scolastica del libro che Levi appronta nel 1976 e che Mengoni commenta dettagliatamente, definendola «un avantesto, un testo preparatorio e un testo ponte» dei Sommersi. L’ultimo libro di Levi è infatti presieduto da un intento didattico e risponde alla necessità, fortemente sentita da Levi a trentacinque anni di distanza dall’esperienza di Auschwitz, di combattere e correggere semplificazioni, malintesi e stereotipi sul tema dei Lager insorti e cristallizzatisi nell’opinione pubblica.
Libro stratificato, nato dalla convergenza e dall’accumulo di esperienze, sollecitazioni e letture, i Sommersi è peraltro un libro delle “aporie, delle sfumature e dei distinguo” (Mengoni), lontano dallo stile assertivo e solenne di Se questo è un uomo, come dimostra Mengoni in analisi testuali assai raffinate.
La collocazione del volume di Mengoni in una collana dedicata alla “Letteratura tradotta in Italia” si spiega con la funzione sotterranea ma decisiva svolta dai processi traduttivi e dagli scambi interculturali nella genesi e nella natura dei Sommersi: all’inizio della lunga fase di ripensamento sull’esperienza nel Lager che condurrà Levi alla stesura del suo ultimo libro sta appunto la traduzione in tedesco di Se questo è un uomo, mentre la corrispondenza con i lettori tedeschi amplierà notevolmente lo “scaffale” tedesco di Levi; l’argomentazione nei Sommersi si basa, d’altro canto, su di un ampio novero di fonti di origine tedesca in senso lato, ovvero testi letterari, studi storici o sociologici scritti da autori tedeschi o mitteleuropei o la cui lettura viene comunque suggerita a Levi da corrispondenti tedeschi. L’analisi di alcune di queste fonti svolta da Mengoni (Thomas Mann, Alfred Döblin, Victor Klemperer, Erich Fromm, Gitta Sereny, Wiesław Kielar, Christian Morgenstern) mostra come il richiamo a questi testi non si esaurisca in citazioni cursorie ma sia funzionale a esemplificare figure e concetti decisivi della riflessione e dell’immaginario concettuale, psicologico e morale di Levi.
Così, il Giuseppe della tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, che Levi conosceva già da ragazzo nei volumi verdi della Medusa mondadoriana presenti nella biblioteca paterna, si rivela un personaggio speculare ai personaggi di “salvati” di Se questo è un uomo e la parabola morale di Franz Biberkopf, il protagonista di Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, che Primo Levi lesse in anni più tardi, rivela affinità con l’ambiguo Rumkowski, che nei Sommersi assurge a rappresentante emblematico della “zona grigia”.
Il saggio di Mengoni si rivela, in conclusione, come un’analisi rigorosa e appassionata, che attinge con sicurezza a diverse discipline, dalla critica letteraria alla sociologia, dalla storia alla psicologia alla linguistica, e da cui l’ultimo libro di Levi emerge in tutta la sua densa e, a tratti, insondabile complessità.