Olivia ha due padri perché non ha più una madre: Ginevra, che l’ha partorita, è morta in un incidente stradale quando lei era ancora bambina. Gioele è il padre biologico, mentre Vittorio è il compagno che ha vissuto con sua madre dopo Gioele. I due uomini hanno deciso di vivere insieme, cercando di incrociarsi il meno possibile, per crescere Olivia, per starle entrambi vicino e non farle mancare l’amore paterno.
Questo è l’ambiente in cui Martina Faedda colloca una storia dolorosa. In poco meno di centocinquanta pagine, scandite da brevi capitoli con interessanti e centrati titoli (“Che tu per me sia il coltello”, “Il rumore delle feci nel water”, “Luce mia”, “Il frutto del tuo seno”, per fare qualche esempio), assistiamo alla faticosa esistenza di una ragazza con una fragilità estrema, che vive una grave forma di disagio: già all’età di otto anni è sopraffatta da un immotivato senso di colpa per aver preso un brutto voto, o una nota. Neanche riesce a ricordarsi bene il motivo che la portò, per la prima volta, a impugnare un tagliacarte e puntarselo, spingendo con tutte le sue forze, contro il petto. Da quel primo goffo tentativo di autolesionismo che le procurò soltanto un livido, un solo singolo capillare esploso sotto il maglione, inizierà a infliggersi tagli che, se al principio saranno poco più che graffi, ben presto le segneranno senza tregua buona parte del suo piccolo corpo, fino a diventare una specie di macellaio di sé stessa.
Il corpo di Olivia è piccolo, ma lei lo vorrebbe addirittura minuscolo. Il suo pensiero dominante è rendere felici i due padri che ama moltissimo ma, mentre Vittorio si accontenta di trascinarla con lui in montagna, condividendo la fatica dei sentieri fino alla cima, non per un reale interesse, ma per fare qualcosa in sua compagnia, Gioele – il padre al quale ha poco da dire, ma di cui subisce il nervosismo e agogna l’approvazione – ha inculcato in lei l’idea che solo un corpo magro è bello, e da qui proviene la mania di controllare le calorie rendendo il cibo un nemico contro cui combattere ogni giorno. Olivia ritiene che il suo corpo, così com’è, non vada bene e diventa anch’esso un nemico da combattere; un corpo che, visto distorto nell’acqua della vasca da bagno, scopre di detestare e vorrebbe si dissolvesse fino a scomparire «se a ogni lavaggio l’acqua calda le causava quella desquamazione, forse poteva sveltire il processo eliminando con le unghie uno strato di pelle dopo l’altro e rimuovendone uno al giorno, meticolosamente, il suo corpo sarebbe diventato a poco a poco più sottile, fino a perdere quella parte molle, quel grasso che tanto l’affliggeva».
In un equilibrio che Olivia stenta a trovare – perennemente alla ricerca della perfezione impossibile da conseguire, nel suo costante sentirsi inadeguata – a un certo punto s’aggiunge la tragedia della malattia di Vittorio colpito da leucemia fulminante e il conseguente corto circuito mentale di Olivia: nella ragazza si fa strada una convinzione diabolica, una macabra speranza, quella che se lei diventerà uno scheletro, se cederà al padre la sua energia, la sua forza vitale, forse lui si salverà. In questa realtà distorta, neanche l’amicizia con una compagna di scuola o la tenerezza dell’amore di un ragazzo riescono a far desistere Olivia dal funesto piano per salvare Vittorio e mentre in sei mesi lui pare invecchiato di sei anni, lei non solo perde il ciclo mestruale e tutto quello che di femminile c’è in lei, ma la sua pelle diventa così trasparente, così tirata, da dare l’impressione d’intravedere gli organi interni: la pancia, curvata in un incavo, pare non poter contenere alcun organo – sembra non esserci più spazio per stomaco, fegato, pancreas e intestino. Le gambe sono ormai lunghi steli sottilissimi, le braccia due stecchi; la pelle mostra mille minuscole cicatrici, tagli, unghiate e lividi: il suo corpo pare manifestare, in sua vece, un dolore troppo forte per essere espresso a parole.
La vita profonda di Martina Faedda è un bell’esordio: con prosa asciutta e misurata, la giovane scrittrice pesca ampiamente dalle sue vicende personali mantenendo un buon equilibrio tra le due voci di questa storia – quella della disperazione e quella della speranza –, dicendoci che di anoressia si può morire, ma che si può anche guarire e gli atti di autolesionismo si possono in qualche modo controllare. Nel commovente epilogo, al padre che non c’è più ma più che altro a sé stessa, Olivia promette di star bene, di vivere, tentando col padre che c’è ancora di costruire un rapporto diverso perché “è importante stare bene nella vita quotidiana, ma ancora di più nella vita profonda”.
Mentre leggevo la storia di Olivia mi scorrevano davanti le immagini di un interessante film di Matteo Garrone in cui un uomo è ossessionato dalle ragazze magre e la sua compagna accetta di diminuire sempre più il suo peso: lo fa come un atto d’amore, ignorando che sta alimentando una psicopatia dell’uomo. Il lungometraggio ha per titolo Primo amore (2004), ma nella storia raccontata da Garrone, così come nella storia raccontata da Faedda, di amore non se ne vede traccia. Tra le righe de La vita profonda leggo anche questo monito: non lasciamoci ingannare da chi usa il termine amore a sproposito.