Martina Castigliani / La voce di chi si ribella

Martina Castigliani, Libere. Il nostro NO ai matrimoni forzati, PaperFIRST, pp. 180, euro 17,00 stampa, euro 9,99 epub

Capita, a volte, di chiudere un libro e domandarsi se, davvero, era il caso scriverlo. Questa volta non ho dubbi: sì, Libere. Il nostro NO ai matrimoni forzati di Martina Castigliani – giovane giornalista collaboratrice di “Il Fatto Quotidiano” – andava scritto. Castigliani, avvezza a temi “scomodi” (aveva raccontato di migranti nel 2019 col libro edito da Mimesis, Cercavo la fine del mare. Storie di migranti raccontate dai disegni dei bambini), si prende in carico le storie di cinque giovani donne nate in Bangladesh, Afghanistan, Pakistan, India e cresciute in Italia, che si sono ribellate ai matrimoni forzati, ossia, a unioni a cui non hanno dato la piena e consapevole autorizzazione, a cui sono state costrette in qualche modo.

Se può esser vero che il silenzio è comodo perché evita di esporci su temi come la religione, l’integrazione, la tutela di chi sopravvive alla violenza, tacere significa anche restare immobili e contribuire a dimenticare donne come queste, costrette a nascondersi per aver scelto di essere libere e a dimenticare le loro storie che, quando ci vengono raccontate dai giornali, è unicamente perché sono terminate con un femminicidio e, comunque, anche in caso di morte violenta, tendono a sparire troppo in fretta dalle cronache e dalla nostra memoria. Se invece ascoltiamo queste ragazze, perché nelle storie che troverete in questo libro ci sono le loro voci, sapremo da Fatima (che prima di scappare ha provato a ubbidire alla famiglia) che in casa ”ti fanno credere che l’amore nasce dopo il matrimonio e nessuna dice NO”, che ha dovuto subire a scuola episodi di razzismo, che il promesso sposo è convinto che la sua voglia di studiare sia motivata dal voler essere più intelligente di lui e che è stata rinchiusa nella sua camera per tre giorni perché ha osato infilare il vestito nei jeans.

E poi ci parla Jasmine che inizia la sua ribellione non indossando il velo a scuola, nonostante il padre la minacci con un coltello urlandole di essere la vergogna della famiglia e che avrebbe già dovuto ammazzarla. Fra le altre cose, Jasmine ci spiega che la fuga è una cosa seria, non è sufficiente mettere quattro cose in uno zainetto, ma servono pezzi di carta che dimostrino chi sei e che cosa hai fatto perché, paradossalmente, proprio nel momento in cui decidi di sparire, devi avere un’identità certa. Ci racconta anche che “nella comunità islamica molti pensano che dopo che sei scappata inizi a bere, fumare e vuoi solo andare a letto con qualcuno”, ma che non è così e che non si tratta neanche di una generica voglia di vivere all’occidentale, ma solo la necessità, il diritto che non dovrebbe conoscere confini geografici, di essere libere di scegliere la propria vita.

Zoya ci parla di come è stata rifiutata alla nascita dalla madre perché femmina e, come tale, non valesse niente e venisse obbligata al velo fin dai tempi dell’asilo, picchiata all’arrivo delle mestruazioni perché interpretate come perdita della verginità, massacrata di botte dalla mamma e dallo zio e costretta dal marito a fare sesso: uno stupro “legalizzato”, in pratica. È da Khadija, invece, che veniamo a sapere che botte e insulti non si fermano neanche con la gravidanza, nonostante si cerchi di scomparire, d’essere invisibile, di stare in silenzio e adempiere come una schiava ai doveri imposti dalla famiglia. Alla fine, arriva la lettera di X che ha deciso, dopo la fuga, di tornare dalla famiglia per rompere le tradizioni alla luce del sole; i genitori, dopo la sua denuncia, spaventati dalla possibilità di avere problemi con la giustizia italiana ma soprattutto desiderosi di salvare la faccia di fronte alla comunità islamica, hanno accettato un accordo di rientro a casa con qualche concessione alla libertà di X e sotto la sorveglianza dei servizi sociali e della polizia: può lavorare e studiare, non mette il velo, ma si copre nel vestire.

Martina Castigliani s’è messa da parte raccogliendo queste testimonianze, considerando da subito le ragazze – le “Libere” del titolo – come coautrici dell’opera, lasciando loro molto spazio e dimostrando grande rispetto: non c’è il minimo intento sensazionalista in queste narrazioni, nessun melodramma. Basterebbero queste cinque voci a creare diversi spunti di riflessione ma, prima di chiudere il libro, la generosa giornalista dà voce anche a Cinzia Monteverdi che firma la postfazione, alla testimonianza della consigliera comunale di Reggio Emilia Marwa Mahmoud, all’insegnante online d’italiano per la comunità bengalese Tashina US Jahan, al regista pakistano naturalizzato italiano Wajahat Abbas Kazmi. Non solo, possiamo anche leggere l’intervista a Tiziana Dal Pra, fondatrice di “Trama di Terre” – associazione di donne native e migranti – e prima persona a interessarsi nel nostro Paese di ragazze che spariscono una volta raggiunta l’età da matrimonio; la riflessione dell’educatrice e operatrice antiviolenza Alessandra Davide; la conversazione con  Angela Bottari (deputata del PCI per tre legislature dal 1976 al 1987) che s’è battuta per l’abrogazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (risultato ottenuto nel 1981) ed è stata relatrice e promotrice della prima proposta di legge contro la violenza sulle donne.

Leggere questo libro servirà a capire una realtà che sembra distante da noi ma così non è, e chissà che, una volta terminata la lettura, non cambi il nostro modo di guardare gli occhi che sbucano dal velo che nasconde il viso di migliaia di donne; così fosse, sarà un bel gesto di sorellanza verso le ragazze che si sono ribellate e verso le altre – come recita la dedica in esergo – che non lo hanno potuto fare.

I proventi dei diritti d’autore ricavati dalla vendita del libro andranno alla già citata associazione “Trama di Terre”.