Nel novero delle tradizioni letterarie, non necessariamente avanguardistiche, dove proliferano quei testi che costituiscono sfide rilevanti per la traduzione, non può mancare la letteratura statunitense del XIX secolo. C’è una ragione contestuale forse un po’ banale, ma dai tratti certamente specifici, e risiede nella diffusa sperimentazione degli autori e delle autrici su una lingua già esistente, l’inglese, allo scopo di legittimare una tradizione letteraria autoctona a pochi decenni dall’indipendenza dalla corona britannica. Non si possono non ricordare, agli estremi opposti, la monumentalità di Moby Dick di Melville e la scarnificazione dei versi di Emily Dickinson, o anche quell’espressione fluviale di Walt Whitman che difficilmente trova una buona riproduzione al di fuori del beat, sempre in inglese, della generazione omonima. Una delle sfide più alte, in ogni caso, è rappresentata dalle Avventure di Huckleberry Finn (1884) di Mark Twain – romanzo finito sugli scaffali della “letteratura per l’infanzia” in molti Paesi del mondo, ma che al tempo stesso rappresenta, per certi versi, anche l’infanzia della letteratura statunitense, o perlomeno un momento fondativo che merita adeguata canonizzazione.
Lo ricorda Emanuele Pettener nella breve ma incisiva introduzione al felice azzardo di Riccardo Ferrazzi e Marino Magliani, coppia di traduttori che si è recentemente cimentata nella sfida posta dal libro di Twain per il piccolo, ma combattivo, editore mantovano Oligo (lavorando, nel frattempo, alla traduzione di un capolavoro di un’altra lingua e tradizione letteraria: il Romancero gitano di García Lorca, pubblicato poco prima del libro di Twain dall’editore Luigi Pellegrini). D’altronde, si tratta di una considerazione già appartenuta a Ernest Hemingway nelle Verdi colline d’Africa, e citata più recentemente da Woody Allen in Midnight in Paris: “Tutta la letteratura americana moderna proviene da un libro di Mark Twain che si intitola Le avventure di Huckleberry Finn”.
Chi si fa anticipate beffe di questa definizione è Twain stesso, che inizia uno dei suoi capolavori – non di certo l’unico: come non ricordare, tra gli altri, almeno anche Wilson lo svitato, tradotto da Franco Cordelli nel 1979? – con queste parole: “Se non avete letto un libro intitolato Le avventure di Tom Sawyer non sapete niente del sottoscritto; ma chi se ne importa”. Leggerezza e inclinazione all’umorismo, del resto, sono la cifra stilistica dell’intero libro, insieme a una mai doma attenzione sociologica e sociolinguistica la quale, appunto, costituisce croce e delizia dell’impresa traduttiva), evidenziata da Twain già nel “Chiarimento” iniziale: “Nel testo vengono utilizzati un certo numero di dialetti: la parlata dei negri del Missouri, alcune forme estreme del dialetto parlato nelle foreste del sudovest, il vernacolo in uso nella Pike County (Missouri e Illinois) e quattro diverse varianti di quest’ultimo. Le sfumature linguistiche non sono state costruite a casaccio o tirando a indovinare […] Tengo a metterlo bene in chiaro perché altrimenti i lettori potrebbero supporre che i personaggi tentino di parlare la stessa lingua, senza riuscirci”.
La polifonia e policromia dello stile di Twain non è sempre all’altezza di questo intento superficialmente imparziale, facendo emergere a tratti – e non soltanto per l’uso del lessico razzializzato, assai comune all’epoca – un discorso ideologico non propriamente progressista, neanche per l’epoca, e che si evince, ad esempio, in modo piuttosto chiaro in un’altra opera, pur godibilissima alla lettura, come Il diario di Eva. Ferrazzi e Magliani, di conseguenza, si ritrovano ad affrontare la sfida di Twain su un terreno che, per di più, è assai scivoloso, e lo fanno da par loro.
Ne danno conto in una breve ma persuasiva “Avvertenza” iniziale, sottolineando come la collocazione delle Avventure di Huckleberry Finn sugli scaffali della letteratura per l’infanzia abbia spesso portato a una normalizzazione delle scelte traduttive, mentre “non sempre i personaggi parlano allo stesso modo”. Twain si concentra sui dialetti del Sud degli Stati Uniti, ma nella traduzione è opportuno tener d’occhio anche altri elementi, come ad esempio il fatto che “la lingua dello stesso Huck Finn diventa più formale quando narra distesamente, salvo poi tornare al gergo nei dialoghi e nelle scene di azione”. Sostituire le varietà dell’inglese degli Stati Uniti con le varietà dialettali dell’italiano sarebbe svilente e scorretto; di conseguenza, Ferrazzi e Magliani adottano altre scelte, manipolando la lingua su altri livelli, dalla deviazione dalla norma grammaticale alla ricombinazione sintattica. Ne esce una pagina pulita, ma linguisticamente molto vivace anche in italiano: una nuova polifonia e policromia, dunque, che però mantiene sapientemente sullo sfondo quel Mississippi che veglia silente sulla narrazione sin dalla sua prima apparizione – “c’era il fiume, largo più di un miglio, tremendamente vasto e silenzioso” – e che da una parte rappresenta l’imprescindibile elemento mitico di questa narrazione fondativa, per la letteratura statunitense, ma d’altro canto è anche un prezioso contrappeso simbolico al babelismo di ogni possibile narrazione e traduzione, e in particolar modo di quella di Mark Twain.