Neuropsicologo, docente all’Università di Cape Town e presidente della Società Internazionale di Neuropsicoanalisi, disciplina che ha contribuito egli stesso a fondare negli anni ’90, Mark Solms sintetizza in questo saggio divulgativo oltre trent’anni di ricerca per approdare – come chiarisce nel titolo – al “problema difficile” della coscienza e di una sua spiegazione scientifica. Il libro affronta in particolare quattro questioni centrali nel pensiero di Solms: il rapporto tra Freud e la neuropsicoanalisi; la coscienza come sistema affettivo subcorticale (riconoscendo il debito formativo con Sacks, Damasio, e soprattutto Jaak Panksepp, a cui è dedicato il volume); il modello omeostatico della cognizione avanzato più recentemente assieme al fisico Karl Friston; infine, l’ipotetica fattibilità di una “coscienza artificiale” – da non confondere con le AI e altre protesi cognitive – in polemica dichiarata con il filosofo australiano David Chalmers.
Cominciando da Freud, Solms difende il programma del neurologo viennese e le modalità dell’indagine psicoanalitica, le uniche praticabili alla luce della tecnologia del suo tempo, per esplorare scientificamente le connessioni tra prospettiva mentale e somatica. I sogni non erano infatti un epifenomeno del sonno REM, come si pensava negli anni ’50, e la loro interpretazione, a distanza di un secolo, resta il principale riferimento della pratica analitica. Solms stesso appena dottorato decise di studiare da psicanalista, mettendo (dice) in gioco la sua carriera.
Il problema con Freud non è il metodo ma sono le cognizioni fisiologiche che condivideva con il suo tempo, che, semplificando, individuavano la sede nobile della coscienza nella materia grigia e nella corteccia cerebrale, la stessa del linguaggio e della percezione visiva. Per Solms le pulsioni che concorrono alla conduzione dell’organismo non provengono da lì, sarebbero inoltre le sette descritte da Panksepp (sesso, gioco, rabbia, paura, abbandono, cura e ricerca come pulsione di default), non comprendendo in alcun modo Thanatos. Un approccio che priorizza la biologia della mente e utilizza una definizione di “istinto” non convenzionale, almeno rispetto alla visione psicoanalitica prevalente. Ma una distanza anche maggiore dalla dottrina freudiana riguarda la radicale inversione degli assi fisiologici nella “mappatura” cerebrale. Come spiega bene altrove: “la parte superiore del tronco encefalico (e le strutture limbiche associate) svolgono le funzioni che Freud attribuiva all’Es, mentre la corteccia (e le strutture associate del prosencefalo) svolge le funzioni che egli attribuiva all’Io. Ciò significa che l’Es è la fonte della coscienza e l’Io è di per sé inconscio.”[1]
Questo ci porta al secondo nodo teorico affrontato dal neurologo sudafricano, forse più familiare ai lettori adelphiani di Sacks e Damasio. Per Solms la coscienza ha infatti una sede molto più antica della corteccia cerebrale e coincide con la fonte dei sentimenti e degli affetti, per lo più consci. La riprova arriva da decine di casi documentati, da pazienti che – per sfortuna loro e fortuna della scienza – hanno riportato danni permanenti a specifiche sezioni del cervello. Ma anche – non essendo la coscienza un dato esclusivamente umano – grazie a centinaia di primati e mammiferi che dopo essere stati decorticati in laboratorio, hanno continuato a manifestare una chiara e inconfondibile intenzionalità (siamo l’unica specie che per capire dove ha la coscienza prova ad asportare quella di altri animali).
Dal tronco cerebrale, attraverso i flussi neuronali di neurotrasmissione e neuromodulazione irradiati attraverso il cervello, la coscienza si fa strada attraverso la danza degli affetti e dei sentimenti. Quella che Solms descrive in termini rigorosamente meccanicistici è una macchina predittiva che predice costantemente anche quelle che ci appaiono come “percezioni” immediate. La coscienza – ed è il terzo motivo del libro – non sarebbe altro che un dispositivo omeostatico che l’evoluzione ha fornito all’organismo per ottimizzare le attività neuromuscolari e minimizzare l’energia libera, cioè in pratica l’errore. Secondo il principio dell’energia libera di Friston ogni organismo vivente è alla ricerca di un equilibrio sensomotorio in grado di ridurre l’entropia. Per il nostro cervello l’ideale sarebbe infatti, almeno in linea teorica, la stasi, ottenuta grazie a un match predittivo completamente a prova di errore.
Solms e Friston hanno tradotto questo principio in un modello matematico e funzionalistico della coscienza che il neurologo si propone di validare in futuro attraverso la simulazione digitale o, meglio, la creazione di un’autentica – benché non viva agli effetti biologici – “coscienza artificiale”, in grado di esprimere una propria autonoma, benché limitata, intenzionalità. Una coscienza elettronica che, non appena manifestata andrebbe probabilmente, anche immediatamente spenta, in base al prevalente principio di precauzione (il saggio sposa in questo senso le ansie dei doomers in seno all’odierno dibattito sulle AI).
Ammesso che l’esperimento avesse successo, la domanda è se poi fornirebbe davvero una risposta definitiva alla “domanda difficile”, formulata ormai un quarto di secolo fa da David Chalmers, sull’origine della coscienza. Se fosse in grado, cioè, di validare non solo una spiegazione fisiologica dell’oggetto (la “domanda facile”) ma anche l’esperienza fenomenologica del soggetto. Un modo di porre la questione, secondo Solms, metafisico e dualistico: il fulmine non è la causa del tuono, osserva, ma lo stesso fenomeno elettrico percepito attraverso la vista e l’udito. La fonte nascosta dedica un intero capitolo per smontare le tesi del filosofo australiano, di suo forse più disposto a credere che viviamo dentro a una simulazione o che ogni cosa al mondo sia dotata di una coscienza, piuttosto che dare credito a una risposta in termini funzionalistici al “suo” storico quesito.
[1] Mark Solms, The Conscious Id, Neuropsychoanalysis, 2013, 15