Mark Haber è un giovane scrittore americano che lavora come operations manager nella libreria indipendente Brazos Bookstore di Houston. È autore di una raccolta di racconti, Deathbed Conversions, pubblicata nel 2008, e di un romanzo, Il giardino di Reinhardt – segnalato nella longlist del PEN Hemingway Award –, che ora Keller propone al lettore italiano a tre anni dall’edizione americana. (Il suo secondo romanzo, Saint Sebastian’s Abyss, è uscito da pochissimo per Coffee House Press.)
Si tratta di un testo colto, assimilato dallo scrittore argentino Rodrigo Fresán a Il soccombente di Thomas Bernhard o ad Amuleto di Roberto Bolaño. È la storia di Jacov Reinhardt, figlio di imprenditori di tabacco, che è originario della Croazia e sta scrivendo un trattato (“un capolavoro”) sulla malinconia. La lucida ossessione per questo sentimento/principio esistenziale è tale che Jacov decide di recarsi, intorno al 1907, in Sudamerica a stanare Emiliano Gomez Carrasquilla, suo beniamino e “filosofo perduto della malinconia che vive […] nelle giungle della Colombia o forse del Brasile, in ogni caso nelle Americhe”. La posizione del narratore rispetto ai fatti è omodiegetica: gli eventi non sono esposti dall’autore onnisciente, ma dall’innominato e fedele annotatore delle avventure jacoviane, un io-altro ovviamente prospettico e imperfetto (con il rischio che sia una fonte in parte inaffidabile, a causa di una non precisata malattia: “Io, in preda ai deliri, pensavo a Jacov e all’opera della sua vita, che mi avevano portato a vagabondare dietro di lui per l’ultima metà della mia giovinezza, undici anni se non sbaglio; undici anni a scrivere sotto dettatura, undici anni ad annuire a idee che sfuggivano alla mia comprensione, dalla Croazia all’Ungheria, dalla Germania alla Russia, e ora nelle Americhe, perso nel basso ventre di questa odiosa giungla”).
L’opera scorre in modo piacevole e la tecnica scrittoria ha l’immediatezza dello stream of consciousness e la sinteticità abbozzata della pagina di diario. Sorprende la visione generale della malinconia enucleata da Haber, in controtendenza rispetto al senso comune: “I filosofi hanno etichettato la malinconia come una malattia, hanno dichiarato che è tristezza senza ragione, mentre io ero certo che fosse tristezza della ragione. Quando si è malinconici si vede la realtà con assoluta lucidità. I malinconici sono i beati di questo mondo, i veggenti e i visionari, e mentre Jacov parlava della sua malinconia diveniva meno malinconico, perché, per studiare questa emozione, mi rendevo conto, bisogna lasciarsela alle spalle, perché la malinconia prosciuga le forze, fiacca lo spirito, sgretola le attitudini, e una delle ironie più crudeli della malinconia è proprio la forza necessaria per studiarla”.
La malinconia, dunque, come forma di beatitudine. Perché? Perché è sorgente del “progresso umano”, un glorioso “regno enigmatico senza iscrizioni”, addirittura “un inno, una foglia che cade, un corso d’acqua ghiacciato nel cuore dell’inverno”. La malinconia assume così in controluce il volto del suo opposto, la felicità, perché è un continuo impulso a essa, un corroborante lavoro di tenacia che proviene dagli abissi insondabili della psiche e addita qualcosa d’altro, misterioso, enigmatico: la “malinconia dell’anima umana” è forse tensione alla “trascendenza di Dio”, nascosta nostalgia di essa. L’andamento talora trattatistico del Giardino di Reinhardt ci potrebbe far curiosamente pensare alle lunghe divagazioni presenti in Moby Dick. In ogni caso, la voce di Haber è davvero unica nella foltissima vegetazione della letteratura americana contemporanea: questo romanzo, punteggiato di citazioni da László Krasznahorkai e Saul Bellow, che tocca i limiti del colonialismo, dell’utopia e dell’arte, è scritto con l’ironia febbrile tipica della Mitteleuropa; un labirinto letterario sparigliato tra i continenti che prova abilmente a descrivere l’indescrivibile.