La morte per suicidio di Mark Fisher (1968-2017) gettò nello sconforto migliaia di pensatori, critici culturali e militanti politici della sinistra di movimento che avevano trovato nei suoi testi una delle più efficaci diagnosi del tempo in cui viviamo. Filosofo, giornalista e blogger con il nickname di “k-punk”, collaboratore di Wired e The Guardian, tra i fondatori del gruppo di ricerca Cybernetic Culture Research Unit (CCRU) presso la University of Warwick (UK), Fisher ha teorizzato e scritto di cyberculture, fantascienza e cultura musicale rave e post-rave attraversando l’intero spettro della cultura popolare e della politica.
Nel 2018 NOT editions pubblica la traduzione italiana del suo celeberrimo Realismo capitalista (2018; Capitalist Realism, 2009) che, da titolo, si è trasformata in frase feticcio delle sue analisi della contemporaneità e formula efficacissima per descrivere “la diffusa convinzione che non esista alternativa al capitalismo” e alla sua logica ormai ampiamente interiorizzata.
Dal 2019, minimum fax ha iniziato un meritorio progetto di traduzione complessiva della sua opera, a partire da The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo (2018), seguito da Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti (2019).
Il nostro desiderio è senza nome (2020), accompagnato da una introduzione di Simon Reynolds – celebre autore di Post-Punk (2005) e Retromania (2011) e parte anche lui della CCRU – è la prima parte della raccolta dei suoi saggi e articoli catalogati come “scritti politici” che, pur animati dall’urgenza della scrittura tipica dei testi occasionali e in specifiche contingenze – riots, scandali politici, campagne elettorali ed elezioni, eventi globali, etc. –, affrontano le questioni senza sottrarsi mai alla loro storicizzazione di media e lunga durata.
Nel saggio più lungo, del 2012, “Lottare per la vittoria, non crogiolarsi nel fallimento”, Fisher enuclea molto bene la questione che sembra ossessionarlo e che ha letteralmente infestato il primo ventennio del Ventunesimo secolo, sin dal G8 di Genova e dalle Twin Towers nel 2001 (e che, potremmo dire, giunge fino all’emergenza del Coronavirus): perché, si chiede, nonostante la crisi ideologica e di consenso soprattutto dopo la grande Crisi finanziaria del 2008, il “realismo capitalista continua a esistere?”. La domanda disarmante rivela passioni (talvolta tristi) ed enigmi relativi alle relazioni sia di classe e sia emotive. La risposta immediata è che il realismo capitalista punti a convincere le masse che, come si diceva, non ci sia nessuna alternativa possibile al capitalismo. Riecheggia qui, come in tutte le analisi di Fisher, uno degli slogan chiave del thatcherismo – “there is no alternative” –: una persecuzione ideologica e psichica, che si somma alla crisi di lunga durata dei partiti socialisti e socialdemocratici (il Labour Party poi New Labour, in primis) che hanno invece finito con l’assumere quello slogan come fondamento ideologico.
In effetti, la parte più dolorosa del volume – un dolore che talvolta sembra assumere una connotazione proprio fisica – riguarda tutti gli articoli scritti da Fisher su varie testate all’indomani del risultato delle elezioni politiche generali britanniche del 2015 (vittoria dei Tory di Cameron con maggioranza assoluta, sconfitta del moderatissimo Labour di Ed Milliband e, alla sua sinistra, buona affermazione dello Scottish National Party di Nicola Sturgeon): non tanto per la sconfitta del Labour, quanto per la presa d’atto che esso non rappresentasse alcuna alternativa progressista al conservatorismo classista dei Tory con i quali molti, nelle classi lavoratrici, si identificano. Ma questo fenomeno, sottolinea Fisher, non vuol certo dire che questi lavoratori e lavoratrici esauste per il troppo lavoro abbiano effettivamente un orientamento conservatore! È piuttosto la conseguenza della naturalizzazione dell’ideologia dominante basata su solidarietà negativa, guerra tra poveri e razzismo. “Il successo dei Tory”, scrive Fisher, “è dipeso dalla disattivazione popolare”.
Così, Fisher si ritrova ciclicamente a ragionare sul perché a cinque anni da una crisi devastante del capitalismo, la sinistra (moderata) non abbia sostanzialmente guadagnato terreno. Ritorna così, come un turbamento, l’inevitabilità delle politiche neoliberiste a cui le masse sembrano semplicemente rassegnate perché esse si presentano come “unica forma realista di governo”. Al fondo, davanti a questa inevitabilità, c’è la totale mancanza da parte della sinistra – politica, di movimento o culturale – di dare risposta ai desideri all’altezza dei tempi, della vita, dei consumi, del tempo vissuto nella nostra epoca. E la risposta a questi desideri passa attraverso la conquista dell’egemonia anche, perché no, con l’occupazione dei media mainstream e degli apparati dello Stato.
La frase scelta come titolo italiano della raccolta è il segno di una mancanza, è la necessità stessa di trovare un’alternativa, progettare l’uscita dal realismo capitalista, la ricerca di nuove narrazioni, trovare il nome che significa generare un’apertura. Per Fisher il nostro desiderio è senza nome anche perché il nome di “comunismo” è “macchiato di connotazioni terribili, indissolubilmente legato agli incubi del Ventesimo secolo”. E tuttavia, la sua proiezione resta positiva: questo desiderio è proiettato nel futuro, da dove proviene e da dove è atteso: “il futuro ci appartiene ancora”, scrive; sarà il frutto di “una prima persona plurale” e farà esodo dal nostro tempo che ci appare paralizzato, bloccato, immobile, nel quale, denuncia Fisher, la sanità mentale è un problema politico permanente in una società governata dal perseguimento dell’ideale di successo individuale e della disintegrazione dei legami sociali tradizionalmente intesi.
Infatti, ritorna continuamente un altro refrain thatcheriano – “la società non esiste, esistono solo gli individui” – che agisce come il comandamento di un’epoca ancora presente e che non riesce a immaginare alcun futuro alternativo. E questa mancanza di immaginazione è l’altra faccia della depressione dilagante, derivante da ciò che egli chiama “privatizzazione dello stress”, ovvero l’individualizzazione di un fenomeno che nasce dentro la società della performance e della valutazione continua, dell’individualismo esasperato e dell’estrazione di valore dalla vita intera, dello sfruttamento e dell’autosfruttamento. Siamo nell’epoca dell’ansia, che è lo “stato emotivo correlato alla precarietà (economica, sociale, esistenziale) che la politica neoliberista ha normalizzato”.
Ne emerge un quadro del tutto suggestivo e un’analisi impietosa dell’economia psichica del capitalismo del nostro tempo segnato dalla diffusa sensazione di frustrazione e abbandono che si manifestano, per esempio, dietro fenomeni quali l’ISIS, cioè forme di “cybergotico” che colgono nel capitalismo il suo lento cristallizzarsi in un passato privo di presente e di futuro. In questa temporalità lacerata, la violenza ha gioco facile nella cattura di soggetti stressati e scartati.
Mark Fisher abitava le contraddizioni con una scrittura che non si consegna mai all’ovvio, affondando dentro le linee di faglia che si aprono tra i due poli delle sollecitazioni alle quali il capitalismo sottopone le soggettività contemporanee: l’euforia individualistica del successo sempre a portata di mano – ma mai raggiunto – e l’abisso del fallimento sempre più diffuso ma consegnato alle ansie e alle depressioni individuali, appunto, privatizzate. Le sue pagine ci consegnano oggi un’analisi non rassegnata, un prontuario di questioni aperte proiettato nel futuro.