“E voi che andate da soli / Sul sentiero che porta alla croce / Bellezza vi aspetta ogni giorno / Bellezza che ha il volto / Di una pace feroce”. Sono i versi conclusivi de Il re bambino dei Gang, l’ultima canzone citata in Quel giorno Dio era malato, libro scritto da Marino Severini, chitarrista e voce dello storico gruppo combat rock marchigiano, in collaborazione con il critico e giornalista Alberto Sebastiani. Sono probabilmente fra i versi più rappresentativi per la parabola biografica e artistica che si viene a delineare nel testo, riuscendo – come si legge sempre nella stessa pagina – a “conciliare la Casa e le sue fondamenta profonde, quelle che affondano in fondo al mio cuore, con il desiderio di viaggiare, di andare oltre l’orizzonte, è stata un po’ la bussola del mio Viaggio”.
Non si tratta soltanto, per assecondare il noto cliché, della descrizione della vita on the road dei musicisti e al tempo stesso del loro umano desiderio di radicamento. Quel giorno Dio era malato, infatti, non è soltanto il frutto di una scrittura autobiografica, dettata dal bisogno individuale di guardarsi alle spalle (nel caso dei Gang, alla vigilia del quarantennale di attività) e raccontare e raccontarsi. Urgenza che magari c’è comunque, e che la scrittura a quattro mani di Severini e Sebastiani evita accuratamente di enfatizzare, e anche di normalizzare, come spesso accade all’interno di “narrazioni biografiche” in qualche modo simili, mantenendo invece la freschezza spuria di uno stile infarcito di maiuscole e punti esclamativi.
In queste parole, c’è anche il senso di una ricerca artistica e di una produzione genuinamente folk (dove, cioè, le radici sono tanto musicali e cultuali quanto politiche) che, tuttavia, resta sempre aperta a deviazioni e scoperte, o riscoperte, vicino o accanto alla propria “traccia”. Colpisce, a questo proposito, il riferimento costante – ma non per questo determinante o univoco – a una cultura che per semplificazione si potrebbe definire “cattocomunista” (si torni al “sentiero che porta alla croce” della citazione iniziale, ad esempio) ma che con la declinazione borghese di questa formula ha ben poco a che fare, ponendosi invece alla ricerca (ed è ancora una citazione di Severini e Sebastiani) di “quell’Umanesimo di razza contadina e poi operaia che sta la fonte di ogni antifascismo, quello di ieri di oggi e di domani”. Effettivamente, le canzoni dei Gang sono spesso intrise di un antifascismo che rifugge la retorica – particolarmente vivide, a questo proposito, le pagine sulle aggressioni di gruppi di fascisti dopo i loro concerti nel nord Italia, “altro che Blues Brothers e nazisti dell’Illinois!” – di un interesse autentico per le storie di personaggi umili ma non per questo meno rilevanti, nonché di sprazzi utopici saldamente basati sull’esercizio della memoria storica e culturale.
Per altri versi, anche la musica del gruppo appare “di ieri di oggi e di domani”, smentendo l’impressione superficiale che si potrebbe avere del panorama musicale italiano contemporaneo, dove il combat rock sembrerebbe avere “esaurito la propria spinta”: nel racconto di Severini e Sebastiani sono disseminate piccole tracce che rendono evidente l’attualità e la futuribilità di un determinato approccio al tempo stesso esistenziale, artistico-culturale e politico. In altre parole, forse il tempo di Bob Dylan e Neil Young come punti di riferimento musicali, a livello internazionale, si va anch’esso esaurendo, ma il capostipite del folk rock Woody Guthrie è ancora un riferimento presente e potenzialmente produttivo, e non solo per la scritta sulla chitarra – This machine kills Fascists – trasmigrata dalla chitarra di Guthrie a quella del cantante dei Gang. A proposito di Guthrie, infatti, si legge: “Vorrei che tornasse una VOCE come quella di Guthrie per indicarci le Strade da seguire e inseguire… Tornare sulle Strade, non c’è altra via. Riprendere il Cammino, la Lunga Marcia. Perché l’opera di Guthrie è figlia della Strada, anzi delle Strade. Quelle che lui stesso percorre insieme al suo popolo. Quel popolo costretto alla ricerca di una vita dignitosa, di un lavoro, di una speranza per il proprio futuro. Quel popolo che viene buttato fuori, scartato, sradicato, reso servo, costretto a migrare… ma che non si arrende, non ferma il passo. E l’opera di Guthrie lo dice chiaro e forte. Narra il riscatto dei dannati della Terra e l’emancipazione del mondo del lavoro, e così ridà dignità e voce ai vinti e restituisce quel nutrimento spirituale indispensabile a chi lotta per affermare i valori della solidarietà, dell’uguaglianza, della libertà”.
Sono gli stessi valori promossi dalla musica dei Gang, per una questione di “popolo” che non è un popolo storico o sottoculturale determinato, ma si allarga fino ad abbracciare quella “umanità” che sostanzia l’ideale di un nuovo “umanesimo di razza contadina e poi operaia”. È lo stesso popolo della “musica popolare”, e non soltanto pop: una definizione cui si attaglia anche l’opera di un altro grande cantante che compare qui e là nei ricordi di Andrea Severini, e che vorrei ricordare in chiusura, come Andrea Parodi.
Come per il cantante passato alla storia da leader dei Tazenda, anche per i Gang e per Marino Severini “popolare” ha una connotazione altissima, che i lettori di questo libro sono invitati a scoprire attraverso le parole degli autori, intermezzate come sono dai testi dei Gang e dai QR code che rimandano alle canzoni caricate sul canale You Tube ufficiale del gruppo. Una conferma, una scoperta o uno slancio per il futuro, oppure tutto questo insieme, per chi si vorrà avvicinare alla tradizione viva della musica popolare italiana.