Mario Levrero / La letteratura è una caccia anarchica

Mario Levrero, A caccia di conigli, tr. di Raul Schenardi, pièdimosca, pp. 144, euro 13,00 stampa

Chi si appresta a leggere A caccia di conigli di Mario Levrero potrebbe avere le aspettative più disparate, dalla ricerca di consigli sull’arte venatoria cui si riferisce il titolo, su su fino a ciò che l’autore stesso indica come il «penoso procedimento per ottenere la Pietra Filosofale». Quale che sia l’orizzonte d’attesa, non importa poi molto: le 99 prose brevi e brevissime che compongono il libro tendono assai di frequente, quasi in modo ossessivo, al rovesciamento delle aspettative, rinnovando così il principio estetico novecentesco dello straniamento. La stessa storia del testo ne è un chiaro esempio: inserito in un’antologia di fantascienza, nel 1982, A caccia di conigli è in realtà un esempio di “realismo interiore”, per Levrero – o anche di “realismo introspettivo”, per alcuni critici – in cui la dimensione fantastico-speculativa non viene di certo a mancare, e d’altra parte la scrittura non si adagia mai su marche di genere facilmente riconoscibili.

Anzi, si potrebbe anzi concludere che questa sia l’intera storia dell’autore e della sua opera, se si considera ad esempio un titolo, già tradotto in Italia, come Nick Carter si diverte mentre il lettore viene assassinato e io agonizzo (Calabuig, 2016) che, appunto, già sulla soglia flirta con la letteratura di genere, seppur di altro tipo, ma sempre nell’orizzonte di quella “letteratura alta” – in questo caso, di ascendenza modernista – di cui l’altro titolo tradotto in Italia, il mastodontico Romanzo luminoso (sempre per Calabuig, 2014), è invece un esempio paradigmatico. In fondo, secondo la definizione di uno dei massimi critici latinoamericani, Ángel Rama, Levrero è uno dei tanti escritores raros (“scrittori strani”) che costellano la storia della letteratura uruguaiana, trovando colleghi a lui contemporanei come Felisberto Hernández o – come ricorda la puntuale postfazione del sempre eccellente traduttore e curatore, Raul Schenardi – José Pedro Díaz, nonché “discepoli” come Felipe Polleri, tradotto in Italia in più occasioni.

Le microprose che compongono A caccia di conigli – senza per questo dar luogo ad alcuna linearità – sono a loro volta pieni di personaggi strani come l’autore, pur se su un piano diverso: coniglietti, cacciatori, guardaboschi, maghi, generali idioti, ragni che sparano con le cerbottane, oltre a qualche sfuggente, ma non per questo meno seduttiva, figura femminile. Tutti questi personaggi si travestono, cambiando di posto e di categoria in continuazione, e insinuando infine il dubbio in chi legge di essere davanti a una manipolazione tanto linguistica quanto tematico-ideologica continua.

“Non c’è trucco, non c’è inganno”, in ogni caso; come si legge nella prosa XLII: «La forza dei conigli sta nel fatto che tutti quanti credono nella loro esistenza». L’intero libro, in altre parole, appare come un tentativo di demistificare la potenza immaginativa della letteratura, mettendo alla berlina anche un certo lirismo, ad esempio con questo scarto a lato: «Mettendo un coniglio vicino all’orecchio, si sente il rumore del mare», attivando nondimeno altre potenzialità e altre declinazioni del fenomeno letterario. Ciò non vuol dire ricorrere a un esercizio di stile à la Queneau, come dimostra la permanenza, da una prosa all’altra, del motivo della caccia, con l’individuazione di una preda o di un nemico che è, allo stesso tempo, oggetto del desiderio, e che spesso si costituisce anche come l’unica garanzia della possibilità di una verità stabile (per quanto si tratti di una possibilità in ultima istanza disattesa).

È quanto emerge anche dall’Epilogo, a propria volta rovesciamento del Prologo: «Nel complesso eravamo in tanti, e nessuno pensava di obbedire agli ordini». Quella che si ha tra le mani è una caccia di conigli che è anche festa anarchica del linguaggio, un continuo travestimento del desiderio che è pienamente letterario nel suo stare fuori e contro la letteratura.